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L’orologio a pendolo possibilità di un nuovo ritmo a cura della psicologa Valentina Palermo

L’ emergenza vissuta ha dato la possibilità di raccogliere ferite a volte ancora aperte, le stanze virtuali di colleghi psicologi e psicoterapeuti sono state inondate da emozioni contrastanti. Paradossalmente la generalizzazione della pandemia, l’energia inizialmente cristallizzata e l’abitudine di una frenesia incalzante si sono intrecciate alla specificità di un virus, ad un’energia modulata e ad una spontaneità che ha permesso di mettere a fuoco “altro” rispetto al quotidiano. Sveglie frettolose, hanno messo da parte batterie continuamente ricaricate, a favore di orologi a pendolo capaci di scandire un tempo ri-vissuto, perché a prescindere dall’ abitare in famiglia o meno, ci si è riscoperti in nuove o semplicemente dimenticate abilità: cucinare, dipingere, cantare, ballare, fare attività fisica così come mettere ordine, ripescare album di foto accantonate…hanno permesso di creare spazio, dando vita ad un’ energia, che riparandosi si auto-rigenera.
Non si tratta di raccontare un aspetto romanzato della pandemia ma di cogliere polarità che sembrava non potessero dialogare. Ho bene impressi gli occhi di quei lavoratori che non riescono ad arrivare a fine mese a causa di una povertà troppo radicata, incapace di risolversi con misure standardizzate uguali per tutti, ma la preoccupazione di quegli occhi sono gli stessi che esperiscono la gioia di potersi sentire chiamare dai loro bimbi, sono gli stessi che trovano modalità nuove, reiventandosi al di là dell’ età…o dei nonni che oltre ad allungare i loro tempi hanno ampliato spazi vuoti: nipoti, figli che probabilmente citofoneranno e non potranno soffermarsi, ma penso pure a quei nonni che hanno pensato alla possibilità di trasformare quella citofonata, nell’ occasione di preparare una prelibatezza da far arrivare ai nipoti, o a quelli che si sono aperti ai social, alle videochiamate…
Abbiamo assistito ad una collettività che se da un lato unisce tra i balconi delle case, tra il volontariato, dall’ altro separa additando un nemico che non ne fa parte. Siamo stati costretti a fermarci, avendo l’ illusione di essere proprietari del mondo quando in realtà siamo degli ospiti, abbiamo allungato le distanze pur accorciando gli spazi, ci siamo affannati per raggiungere una meta e oggi siamo lì a so-stare sul tragitto, abbiamo cercato il nostro benessere altrove, quando in realtà la dimora per eccellenza è il nostro corpo e proprio quando la relazione mediatica, i social ci vengono in soccorso nel continuare a stabilire un legame, ecco che ci pervade un senso di solitudine più intima, nella quale la fragilità compressa dai ritmi quotidiani, esplode in emozioni che ci mettono a dura prova.  Nella logica di un dialogo silenzioso, ci viene chiesto di guardarci negli occhi, proprio quando fiumi di parole hanno inondato le nostre relazioni, proprio quando il desiderio di uscire ha raggiunto l’apice, viviamo un contrasto emotivo che mette a dura prova il nostro adattamento, gli esperti parlano di “sindrome della capanna”, nonché la resistenza ad uscire dettata dalla paura del contagio o dalla possibilità di ritrovare un mondo sconosciuto che spaventa. L’ evoluzione ci fa riflettere sul limite, quale possibilità di trasformazione, forse facendo nostre nuove lenti, possiamo diventare co-creatori di un ambiente che migliora, possiamo rinforzare il senso solidale e collettivo di una comunità che compartecipa ai bisogni corali, possiamo ripartire dal so-stare per dare orecchio ai nostri bisogni, prendendoci cura delle nostre ferite e dandone così senso e significato. Affacciandoci alla possibilità apriamo la porta della consapevolezza capace di scorgere le infinite sfumature tra limite e desiderio.

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