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Si discute su una possibile norma “dura” per il “revenge porn”

Gli ultimi fatti e nemmeno tanto ultimi, visto la diffusione in rete di immagini private e/o screenshot di conversazioni a scopo puramente denigratorio imporrebbero una disciplina mirata, atta a scoraggiare le azioni deprecabili nel complesso universo di Internet. Non servirebbero norme specifiche per il web poiché molte leggi sarebbero adeguate e perfettamente applicabili. Di fatto ciò che è illecito offline lo è anche online ed è già disciplinato dal quadro normativo vigente. Dovremmo ripeterlo a mente ogni volta che nel dibattito pubblico qualcuno, di solito politici o giornalisti poco inclini a confrontarsi con un concetto ampio di libertà, infila il dito fra le derive amplificate da internet e inizia a invocare norme ad hoc per la rete. Eppure anche questa regola aurea ha le sue eccezioni. Una di queste, per esempio, riguarda il revenge porn, ovvero la diffusione di immagini intime (foto o video) della ex compagna, amico/a a scopo di vendetta e/o rivalsa.
Oggi inserire nel nostro codice penale il reato di revenge porn, intendendo con esso la pubblicazione, la diffusione e la condivisione di immagini e/o video senza che la vittima abbia dato il proprio consenso alla diffusione, non sarebbe uno scandalo e nemmeno una soverchia. Molti paesi, fra i quali Germania, Regno Unito, Australia, Israele e 34 Stati degli USA già disciplinano il reato. In Italia, anche in virtù di un quadro normativo ad ampio spettro, la fattispecie in questione può essere inquadrata come diffamazione, violazione della privacy, stalking, tentativo di estorsione, trattamento illecito dei dati. Ma l’aumentare dei casi e la loro pericolosità intrinseca per le vittime impone un salto di qualità per evitare, sopratutto nelle situazioni intime, uno scambio di dati e segreti che possano nuocere alla persona nel caso vengano diffuse e diventare virali.
Una proposta di legge è stata presentata nel settembre 2016 relativa all’articolo 612 del codice penale per disciplinare il reato di diffusione di immagini e video sessualmente espliciti. Nella proposta si prevedeva la reclusione fino a tre anni per chi pubblica immagini private con considerevoli aumenti di pena se il fatto è commesso dal partner.
La proposta, che dispone giustamente pene per chi pubblica le immagini, ossia il primo e principale responsabile del reato, dato che nel nostro codice la responsabilità penale è personale, non prevede però alcun meccanismo di contrasto né di dissuasione nei confronti di utenti terzi che condividerebbero quelle immagini contribuendo ad amplificare il danno e che comunque anch’esse sarebbero suscettibili giuridicamente in quanto personalmente responsabili del reato in prima persona. Di fatto, anche se i terzi non hanno divulgato inizialmente quella foto e/o quel video ne dovrebbero essere responsabili, conoscendone a priori il dolo e la pericolosità. A questo proposito si applica proprio il Dispositivo dell’art. 5 Codice penale: “Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale” anche se ancora si discute sull’ignoranza inevitabile e l’eventuale “casus legis”. I social e le leggi non disciplinerebbero tempestive azioni di rimozione dei contenuti incriminati, in tempi razionalmente ragionevoli, in modo da attenuarne gli effetti endemici. Sembrerebbero, a ragion veduta, tutti aspetti che andrebbero soppesati meglio e in tempi, auspicabilmente, rapidi. L’allarme sociale di questo reato e il danno per le donne che lo subiscono è troppo elevato per continuare a perdere tempo cullandosi sugli allori di norme poco incisive e spesso inefficaci per tutelare davvero le vittime e dissuadere tutti i colpevoli.

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Paolo Zerbo
Paolo Zerbohttp://zarbos.altervista.org
Paolo Zerbo Direttore responsabile Laurea in Sociologia Communication skills and process model ICT developer
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