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Carlo Costanzo Rabbi religioso agostiniano del settecento e l’umiltà della resurrezione sintomo del “Prometeo Liberato” di Shelley

(di salvo Vasta) Tra non molto il calendario dice che sarà Resurrezione, o Risurrezione. Il Dizionario dei sinonimi italiani di Carlo Costanzo Rabbi (prima edizione in Venezia 1751) che ho davanti per caso e che sempre per caso mi è venuta la curiosità di consultare a quella voce, non la contempla. Forse questo agostiniano militante nelle file della congregazione della Lombardia non riteneva il termine degno di essere accolto in rubrica, oppure ne immaginava la non duplicazione.
A volerci riflettere sopra, non aveva tutti i torti. Nella mia sempre più incuriosita rassegna mi accorgo che egli non ha annoverato qualche pagina prima neanche il più scontato “risorgere”, ma un più pacato (almeno, a me pare così) “risuscitare”.
A parte la certezza ben riposta che a quei tempi vigesse una certa segregazione linguistica, e che esportare dal lessico religioso e teologico verso il linguaggio comune un termine del genere era quantomeno fuorviante – in linea simbolica quella della resurrezione è una questione tutta interna alla fede cristiana. È più facile per un ateo, un agnostico e in generale un non credente immaginare il Natale, la “nascita”, piuttosto che la Resurrezione, proprio perché essa non appartiene all’umano, ma esclusivamente al divino.

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Poiché divina, Rabbi ha ritenuto che non se ne dovesse parlare tra le pagine delle cose umane, e pertanto la resurrezione non è citabile, perché è assente qualsiasi circostanza o evento per i quali essa vada invocata. Più che un tabù, si tratta di un vuoto. Quello stesso vuoto che a oggi non è mai stato colmato in alcun linguaggio di ogni discorso comune perché quel termine fa parte dell’insieme “eternità”, termine che appaiato a quello di “infinità” costituisce la diade, che a detta di Jorge Luis Borges, ha piazzato nel modo di pensare dell’uomo una carica esplosiva.
Lontana dal poter essere invischiata nei discorsi caduchi dell’umanità, la resurrezione fa parte dell’eternità: altro motivo, suppongo, per il quale l’erudito monaco Rabbi si è guardato bene dal poterla contenere in poche manciate di caratteri. Quanto al termine “risuscitare” egli esordisce lealmente con un “ripigliar la vita, scorger da morte a vita”, per poi continuare sulla parte avverbiale con “mirabilmente; contro la speranza; per miracolo; come fenice dal suo rogo”. Conclude sull’uso attivo: “ridonar la vita; richiamar dalla morte; rivocare a vita; ravvivare, rendere la vita”.
Tranne quella miracolistica, compensata dall’immagine mitica della fenice, il dire di questo umanista di metà Settecento è umano, umanissimo, soprattutto quando afferma: “tornar lo spirito, l’anima al suo albergo: riunirli al corpo; rivestir le membra nuovamente”. Nulla che richiami Dio o l’eternità.
Sollecitare un corpo tramite una macchina ridonandogli la vita non è forse farlo “risuscitare”? Fargli “tornar lo spirito” affannandosi tutti intorno nella concitazione del salvamento, inseguendo non i minuti ma i secondi, non è forse questo il senso – come dice Rabbi – della restituzione di un’anima al suo “albergo”?

Guardando al simbolismo, forse si dovrebbe pensare che la resurrezione non è quell’atto solenne e pacato che si è soliti pensare. Quest’ultimo sembra somigliare, piuttosto, alla rievocazione della “Lezione di anatomia del dottor Tulp” di Rembrandt all’interno di un teatro anatomico, che nella sua singolare dinamica si ferma dinanzi al già avvenuto, senza poterne scongiurare il ritorno.
La resurrezione è invece un atto umilissimo: azione disperante che diviene speranza senza limite, fino a sconfinare passo dopo passo nella certezza del ritorno alla vita. Essa è vista da parte umana come tentativo estremo. Piuttosto che l’agire di un Essere grande nei confronti di un altro più piccolo, il risuscitare è l’affanno strenuo, stremante e anche insicuro, perché non certo dell’esito, di tanti piccoli che tentano di strappare uno di loro al limite per “ripigliar la vita”, restituendo la coscienza al suo corpo e l’identità di sé stesso nel percepirsi nel pieno delle proprie capacità intellettive ed emotive.
Come dice Rabbi, lo spirito torna a “rivestire” le sue membra. Il respiro più lungo conta più di uno corto, l’aria che ci ha visto riempire i polmoni alla nascita ritorna come quella prima volta a impossessarsi di noi. Il flatus vocis è prima ancora flatus vitae: quella stessa sostanza, il respiro, è ciò che ci lega al mondo dall’inizio alla fine: il suo ritorno è rientro nella vita ed è capace di suscitare nuovamente vita. Ecco perché “risuscitare” nell’ottica di chi spera è legato alla tradizione della certezza, nello sguardo di chi umanamente dispera è vincolato a quella della possibilità. Attraverso l’aiuto di uomini che fanno ricerca e scienza abbiamo compreso attraverso molti secoli che conoscere di più e meglio noi stessi porta al risultato di poterci mettere in condizione di tentare di “risuscitare” qualche simile. La conoscenza in possesso del Prometeo liberato di Percy Bysshe Shelley è più genuina e matura di quella dell’Ulisse omerico. Il primo riesce dove il secondo non è mai arrivato, cioè nel tentativo di ritornare al bene della natura umana. Forse è questa una vera resurrezione.

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Salvo Vasta
Salvo Vasta
Salvo Vasta è professore di Storia della filosofia contemporanea nell’Università di Catania.
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