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La vergogna nella clinica e nel legame sociale

PALERMO – “Morire di vergogna è il solo affetto della morte che meriti – che meriti cosa? – che la meriti”, diceva Lacan a coloro che assistevano al suo Seminario durante gli anni “caldi” della contestazione, quando era piuttosto la spudoratezza a farla da padrone. Sottomessi, senza saperlo, al Discorso dell’Università, che faceva di loro dei “sottoproletari”, cioè degli scarti del sistema, nulla più che “unità di valore”, sottomessi a un imperativo che Lacan sottolinea con queste parole: “Più sarete ignobili […] meglio sarà”, essi diventavano parte integrante del regime che contestavano, che li metteva in mostra dicendo: “Guardateli godere”.

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Quello sguardo dell’Altro non produceva per essi il “morire di vergogna” che Lacan auspicava; non è lo sguardo evocato da Lacan nel Seminario XI[4], che Sartre aveva messo in rilievo come quello in grado di far sorgere la vergogna: sto guardando dal buco della serratura e un suono di passi nel corridoio fa sorgere la dimensione dello sguardo che mi precipita nella vergogna, in quanto improvvisamente mi vedo guardato. È piuttosto uno sguardo che gode della scena, che gode nel “guardarli godere”; lo sguardo della Società dello spettacolo, in cui tutto è messo in mostra e nulla ha valore, lo sguardo che proviene da un Altro che non ha più lo stesso statuto in quanto si è vaporizzato nella sua funzione e si manifesta come inesistente. Come ricorda Miller nel testo Nota sulla vergogna, “siamo in un’epoca in cui lo sguardo dell’Altro, che causa vergogna, si è eclissato” .

“Non storcete il naso, siete stati serviti, potete ben dire che non c’è più vergogna”: ecco l’enunciato che ben si attaglia alla nostra epoca per descrivere cosa ne è oggi dell’affetto della vergogna. Con il suo correlato: “Allora vi resterà la vita come vergogna da ingoiare, dal momento che essa non merita che se ne muoia”.

Già nel 1958, articolando clinica e politica, Lacan enunciava: “Vi sono infelicità dell’essere che la prudenza dei colleghi e la falsa vergogna che dà sicurezza alle dominazioni, non osano espungere da sé. Va formata un’etica che integri le conquiste freudiane sul desiderio: per mettere in capo ad essa la questione del desiderio dell’analista”.

Paola Bolgiani

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