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Come diventai La Capinera: melodramma psicologico dal 9 dicembre al Teatro Massimo bellini

Storia di una capinera è un romanzo epistolare di Giovanni Verga, in parte autobiografico. Maria, una diciannovenne rimasta orfana di madre da bambina e rinchiusa all’età di sette anni in un convento di Catania, destinata a diventare monaca di clausura per motivi di indigenza economica famigliare (il padre è un «modestissimo impiegato»). A causa dell’epidemia di colera, che nel 1854 colpì la città siciliana, Maria ha l’occasione di trasferirsi nella casetta del padre a Monte Ilice e vivere così con la famiglia per il periodo dal 3 settembre 1854 al 7 gennaio 1855. Conosce un ragazzo Nino con cui scopre l’amore. Ma alla fine della pestilenza è costretta a rientrare a Catania. Mentre la sorellastra Giuditta sposerà il suo amore, Maria prenderà i voti come se fosse un funerale.

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Una mattina sale sul belvedere del convento e scopre che da lì può vedere la casa di Nino e Giuditta: da una finestra arriva perfino a distinguere nitidamente i due sposi. Da allora, ogni giorno e ogni notte si reca sul belvedere per scorgere Nino, magari «per vederlo un solo istante passare da una stanza all’altra e nulla più!». Saperlo a pochi passi dal convento esacerba tutti i suoi supplizi interiori, facendola impazzire. Il bisogno di vedere Nino le fa tentare di fuggire dal convento, ma viene trattenuta dalle converse e, mentre lei si dibatte, urla come una belva e lotta con tutta sé stessa, viene trascinata all’interno della cella di suor Agata, la suora pazza, ma a quel punto Maria sviene. Viene portata quindi in infermeria dove, dopo tre giorni, muore. Il libro si chiude con la lettera che suor Filomena, la suora laica, scrive a Marianna (l’amica a cui Maria scrive delle sue infelicità) e con la quale le fa pervenire (dietro espresso desiderio di Maria) gli effetti personali della defunta trovati sul suo letto di morte: un crocefisso d’argento, alcuni fogli manoscritti (le ultime lettere senza data che Maria scrisse in pieno delirio), una ciocca di capelli e alcuni petali di rosa, di quella stessa rosa che Nino le aveva appoggiato sul davanzale la notte prima della partenza da Monte Ilice, e che furono trovate sopra le labbra di Maria quando morì.

Nella versione di Gianni Bella che va in scena stasera Maria invece di impazzire e di morire dal momento del suo ritorno in convento, capisce che la propria vocazione è autentica e quindi accetta i voti come sposa del Signore.

Ma quante donne sono state sacrificate in nome del Signore? A quante donne è stata sottratta la giovinezza l’amore e la spensieratezza per problemi economici di dinastia di famiglia? Questo è stato un altro immane “femminicidio” di cui non si è mai parlato abbastanza, anzi pare che all’epoca ebbe talmente successo il romanzo da vendere 20.000 copie in pochi mesi…

Spesso le monache, appartenenti a importanti famiglie locali, venivano prelevate con la forza dalla loro vita monastica e costrette a fare da pedina di scambio nella politica matrimoniale di riappacificazione che era diventata un’usanza consolidata nell’Italia del XVII secolo, insanguinata da continue lotte e faide fra famiglie rivali. D’altra parte, però, un altro tipo di “violenza” e costrizione che le donne erano spesso costrette a subire era la cosiddetta monacazione forzata.

Per gli uomini secondo geniti c’era la scelta tra le armi e il convento.

Per le donne, invece, non c’era scelta: l’unica strada erano i voti e una vita in convento interamente dedicata alla preghiera. Anche il matrimonio era a volte categoricamente escluso, in quanto la dote da portare all’altare era di gran lunga maggiore di quella da versare al convento per la monacazione di una figlia.

Ad esempio, nella Repubblica di Venezia, la dote matrimoniale ammontava a 15.000 ducati, mentre il monastero si accontentava anche di 1.200.

A testimonianza di come questa pratica divenne ben presto un vero e proprio problema sociale, sta la disputa nata fra la Serenissima e la Chiesa riguardo la regola monacale. Dal momento che nella Repubblica lagunare si dava ormai per scontato che quasi tutte le monache che prendevano i voti negli ultimi tempi lo facevano contro la loro piena volontà (e in effetti così era), si tentava di smussare la durezza della regola monacale per quanto riguardava il vestire, il mangiare e i contatti fra le monache e l’esterno. Al contrario la Chiesa, esitante ad adattare la regola secolare alla pur evidente verità, voleva mantenere intatti, se non addirittura inasprire, tali obblighi e restrizioni.

La letteratura piena di monache forzate che quando provavano a trasgredire, la pazzia l’umiliazione la vergogna e la morte erano l’unico modo che avevano per espiare le loro colpe…

Colpe d’amore di povere fanciulle appassionate ad amori adolescenziali private di ogni libertà e macinate sempre all’ombra di una logica paternalistica e secolare…

Non dimentichiamoci mai che un romanzo o un melodramma psicologico come nel caso di Storia di una Capinera, hanno influenzato decine di generazioni di donne, compreso il bellissimo film di Zeffirelli, ad una forma sottesa di sacrificio in nome dell’Amore: che sia per un uomo o per Dio ha poca importanza, la lezione è sempre comunque la stessa. L’Amore nella nostra società non può essere piacere, godimento e felicità ma solo dolore, tormento e infelicità. Sennò non è vero Amore.

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Susanna Basile
Susanna Basilehttp://www.susannabasile.it
Susanna Basile Assistente di redazione Psicologa e sessuologa
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