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“La casa di Jack” di Lars Von Trier

Al solito, occorre stare molto attenti quando ci si accosta a un’opera di Lars Von Trier. È uno dei pochi grandi artisti che persiste nel nobile compito di sconcertare i contemporanei tramite una costante e indefessa opera di denuncia mascherata con le fattezze del cinismo, della misoginia, della violenza ecc. (un fatto emblematico è che Von Trier rimanga fuori concorso da un festival come “Cannes”). È dunque estremamente facile per i più derubricare di volta in volta come “insostenibile”, “patetico”, “razzista”, ogni nuova produzione del grande maestro danese. La sua opera di trivellazione, di scavo nel torbido regno della coscienza delle viziate e opulente società occidentali, è il focus di questa rinnovata discesa agli inferi che è “La Casa di Jack”, nel paradosso dantesco che rivelerà (ai più accorti) preziosi riferimenti che andrebbero esplorati in apposite sedi (uno dei tanti punti da indagare sarebbe quello inerente alle citazioni dell’opera di William Blake su Dante, nei vari collage di frame che fanno da contrappunto alla storia).
Fa specie che nel 2019 ci siano ancora comunità disposte a scandalizzarsi per un’opera di Von Trier, che altro non fa che tornare alle pulsioni dell’antenato dell’“homo metaphysicus”, scardinando il portato di duemilacinquecento anni di resistenza immunologica delle civiltà (la celebrazione iniziatica fungeva da ammortizzatore nell’impatto devastante dell’uomo col sacro).
La quercia di Goethe, che vedrà fiorire nei suoi spazi gli orrori di Buchenwald, è, come è stato fatto notare da alcuni, la “Casa di Jack”, ovvero il portale simbolico della nostra civiltà, l’ombelico del mondo che si apre simmetricamente collegando le polarità dell’Inferno a Gerusalemme, il Basso all’Alto, l’orrore alla civiltà.
Nel film emerge dalla radura (lichtung) heideggeriana il vero volto della Natura-che-rivela-se-stessa, che mette a nudo l’artificiosità della luce al neon che illumina le vite dei mortali, nonché il palesarsi della quintessenza del “mostruoso” ai partecipanti al gioco della civilizzazione.
I cinque “incidenti” rappresentano il codice di accesso all’Inferno in compagnia del Virgilio-Bruno Ganz, un gigante alla sua ultima prova (la qual cosa, considerando la natura dell’opera di Von Trier, non può lasciare indifferenti).
È così che nel primo incidente, il cric dato in faccia all’antipaticissima Uma Thurman, può assurgere all’ambizione di grande strumento dell’opera d’arte, nella visione dell’ingegnere-architetto-paziente-ossessivo-compulsivo alle prese col suo percorso iniziatico (altra frecciata di Von Trier alla psicanalisi).
Lo si comprende bene in una delle digressioni che fanno da contrappunto al film: “le antiche cattedrali contengono opere d’arte negli angoli più bui”, come a evidenziare il bisogno essenziale di occultare la vera natura oscena della visionarietà dell’artista. A tal proposito, andrebbe ulteriormente esplorato il ruolo centrale dell’ossessiva e ciclica riproposizione del Glenn Gould alla prese con le sue “variazioni Goldberg”, non a caso nella sua versione domestica, nella dimensione privata della sperimentazione ove l’aspetto più puro della relazione tra artista e opera ha modo di manifestarsi più compiutamente.
Von Trier cesella la sua maniacale cura del dettaglio nel paradosso di un’opera in cui la narrazione sembra farsi esclusivamente allegorica e in cui gli eventi macabri necessari a Jack per la sua catabasi, paiono assurgere a fatto spettacolare di mera visione: lo strangolamento, il pugnale nel cuore, il picnic macabro, ecc. Tutte immagini che lavoreranno nel profondo dell’animo dello spettatore in un’ottica di mutilazione delle resistenze della psiche.
Le grida nella notte della vittima di turno per la città indifferente, l’assordante silenzio dell’urbe, sono il segnale del fatto che l’individuo non può più riprendere posto nelle società contemporanee in un “evento della verità”, perché tali comunità della nostra epoca sono chiuse nell’autismo della proprie necessità cognitive.
E qui torna utile uno dei momenti del film, quello in cui Von Trier fa propria la riflessione delle rovine del passato come risultato esteticamente perfetto della corruzione della storia, vista come processo di distillazione perenne e necessaria alla catarsi dell’arte (Il degrado che rende pregiato il grappolo d’uva in certe zone della Germania).
“Non guardare le azioni ma le opere”.
“La caccia dopotutto è una metafora dell’amore. È questo è il tuo problema Jack”.
“Le lettere ci proteggono e ci separano dal Bene e dal Male”.
Così procede il dialogo interiore tra Jack e Virgilio, nel buio dello schermo nero, prima dell’epilogo finale in cui Jack, di rosso vestito come il Sommo Poeta, viene scortato nella discesa all’Inferno dal suo vate quale anima fra le più corrotte dell’umanità; a mio modesto avviso, c’è anche un velato omaggio al Tarkovskij di “Stalker”.
Ci sarebbe molto altro da scrivere. Mi fermo qui.
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