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Le confessioni di Carmelo Zaffora scrittore,pittore, poeta e giramondo

Chi è Carmelo Zaffora?

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Carmelo Zaffora è nativo delle Alte Madonie, nello specifico Gangi, proveniente da una famiglia di tradizione agraria. In quei luoghi ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza catturando, con la sua sensibilità onnivora, tradizioni orali, abitudini, mitologie, racconti, dicerie, esaltazioni e silenzio. La particolare condizione dislocata ha giocato un ruolo fondamentale nella sua curiosità esplorativa di mondi possibili, di umanità in divenire, di arrese e orgogliose rivincite, di vento sugli altipiani e di nenie crepuscolari. Giovanissimo, in compagnia della sua chitarra, gira l’Europa in autostop alla ricerca di contesti metropolitani in continua evoluzione, osservando il mondo dal basso, con gli occhi dei viandanti, degli ultimi, dei senza fissa dimora. Vive a Londra durante l’esplosione Punk, visita Copenaghen abitando a Christiania tra il melting pot dei sognatori, a Parigi al Bois de Boulogne, a Zurigo tra i gnomi della città, a Lubeck nella città di Thomas Mann. Concluso questo periodo si iscrive all’Università di Catania laurendosi in Medicina per poi, successivamente, prendere la specializzazione in Psichiatria. Dall’età di vent’anni scrive versi e racconti con incursioni nella pittura. Il primo libro di versi “ La Finta Macchia “ lo pubblica nel 1989 con una prefazione di Dacia Maraini.

 

Perché scrive libri?

Credo molto nella parola, sia quella parlata che quella scritta. Penso, da questo punto di vista, che una persona durante la sua esistenza terrena ha il dovere di lasciare qualcosa, di comunicare pensieri, di assommare relazioni, di intessere energie, di battersi contro l’oblio del tempo, di fissare esperienze personali utili da condividere, di incantarsi ed incantare, di non perdere quella irrinunciabile dimensione che si chiama meraviglia verso il mondo, i colori, la spiritualità. In pratica l’esserci come dinamica contro la banalità, l’effimero, l’usa e getta o il “best before end.” e così via. Un individuo che ha la consapevolezza di tutto questo non può, per obbligo morale, tenere la propria cultura chiusa dentro un cassetto. Voglio dire che, quando si approda a qualche forma di conoscenza, essa va condivisa con gli altri. Ecco perché ho scritto una decina di libri.

 

È una forma di autoterapia?

Se vogliamo intendere per autoterapia un processo evolutivo di crescita, certamente sì. Come infatti si afferma, dal punto di vista gnostico, ogni essere umano ha una scintilla divina dentro di sé. La sua funzione è quella di lavorare, ogni giorno, affinché questa piccola scintilla possa avvicinarsi alla Grande Luce, al miglioramento personale, al Bene, contro qualsiasi gelosia, sopraffazione, diversità, invidia, presunzione, violenza. Plotino, nelle Enneadi, affermava proprio questo: i nove stadi dell’evoluzione individuale devono corrispondere, proprio attraverso un percorso iniziatico al miglioramento di se stessi, affinché il male possa essere lasciato fuori dalla porta per approdare all’armonia spirituale. L’Armonia, nella realtà, è l’assenza di conflitti. Scrivere, creare storie, fissare in un verso riuscito che si manda a memoria, una sensazione, un sentimento, un’esaltazione dell’anima, significa dare una parte della propria intimità agli altri, prestare i propri occhi affinché possano vedere ciò che si è visto, in modo da trasmettere qualcosa che possa rappresentare un piccolo seme che, sicuramente, da qualche parte germoglierà.

 

Qual è la sua Mission?

La mission principale è quella di essere generosi, comunque vadano le cose. Niente è vano ed ogni azione che si compie genera qualcosa di altro. Il Niente non produce niente. Una parola, una storia riuscita, una vicenda raccontata con onestà ha la funzione induttiva di spalancare porte all’immaginazione, al sogno, alla fantasia, alla creatività, spingendo gli altri in un percorso di approfondimento, di ricerca, di dubbi, e di curiosità il cui fine è quello di spostare l’attenzione verso un altrove possibile presso cui sedersi e riflettere.

Che cos’è la letteratura?

Credo che la letteratura sia una forma della felicità, come d’altronde è la lettura. Un grande coniatore di paradossi, come fu Borges, immaginò la letteratura come un labirinto o uno specchio. Un’avventura dentro la quale ognuno può smarrirsi o ritrovarsi, svelare enigmi e contraddizioni, iperboli e semplicità. Ogni libro è un piccolo universo, una latitudine inesplorata, una parte del mondo ancora inespressa, un’anima che toglie i propri veli denudandosi per comunicare. La letteratura arricchisce, non rende mai poveri. La dimensione culturale è qualcosa che si stratifica nel tempo, si consolida, mette radici, e non si può comprare al supermercato. E’ una ricchezza che nessuno mai potrà rubare. Un uomo di cultura, sotto qualsiasi bandiera, resta tale e potrà avere, nelle occasioni propizie, l’opportunità di essere riconosciuto come un individuo diverso. La letteratura rientra in questa acquisizione definitiva, come una dimora inscalfibile costruita in lunghi anni di pazienza e di lavoro. La letteratura è un segno. Una ferita e una feritoia, un’inquietudine che non dorme mai.

Chi sono i suoi lettori?

Non esistono lettori ideali. Certamente quando si scrive si tende ad immaginare chi mai leggerà quello che hai raccontato. Poi accadono cose inspiegabili e, a volte, misteriose. E la letteratura è, di per sé, misteriosa. Vieni contattato da gente impensabile, dall’altro lato del mondo, ti arrivano messaggi di plauso e di entusiasmo scoprendo, per esempio, che uno dei miei ultimi libri Le Confessioni di Abulafia, edito da Carthago edizioni, dedicato ad un grande mistico di origine ebraica, vissuto in Sicilia dal 1280 al 1291, è stato acquisito, secondo il World cat.org, dalle biblioteche delle Università di Harvard, Yale, Toronto, Gerusalemme, Zurigo, Monaco, New York, Philadelfia, Cincinnati, Stantford in California etc. Oppure la preziosa collaborazione con Shoshannah Brombacher dagli Stati Uniti, che ha illustrato due dei miei libri.

 

È difficile immaginare lettori ideali ma, come in una stanza piena di specchi, chi scrive sicuramente immagina sè stesso che legge se stesso, proiettandosi così in colui il quale prenderà per la prima volta il libro, assaggerà la prima pagina e l’incipit, si farà coinvolgere dalla narrazione, dai silenzi e dai dialoghi, dalle circostanze degli avvenimenti e dalla personalità dei protagonisti. Raccontare storie non è facile. Occorre essere condottieri di un’armata immaginaria, senza perdere di vista mai il vecchio adagio dell’inizio, svolgimento e fine. Molti che scrivono, purtroppo, senza nessun biasimo, non obbediscono a questo vecchio canone. Vi sono persone che scrivono bene e non hanno niente da raccontare, altri che avrebbero tanto da raccontare ma non sanno scrivere.

Crede nell’immortalità della parola?

È indispensabile, per chi scrive, credere nell’immortalità della parola. È un atto di fede. Bisogna essere fermamente convinti che, forse, tra le pieghe di quello che si è fatto, possa restare qualcosa di memorabile. Questa convinzione è una forza, un’energia che spinge a fare di più, a sondare l’inesplorabile, a vedere dove si guarda soltanto, ad illuminare dove persiste il buio, a spalancare sipari per spettacoli ancora da venire. Se ancora restiamo sorpresi dalle avventure di Gilgamesh, dalle vicende narrate nella Torah o nell’Iliade, nei versi di Epicarmo o Bacchilide, di Shakespeare e Pirandello, Euripide e Beckett, significa che qualcosa sopravvive, contro ogni oblio, contro ogni impero, contro ogni generazione che si estingue, contro ogni bandiera ammainata. In tutto questo è impossibile non credere nell’immortalità della parola.

 

Come finirà con “l’ignoranza dei social”?

Non voglio essere profetico. Certamente la tecnologia procede con la velocità di un razzo sparato nell’universo. Ci sfugge di mano, si aggiorna continuamente, offre  comunque opportunità inimmaginabili. Tuttavia, il nostro cervello dentro cui alberga la mente, ha almeno dieci milioni di anni di storia. Lungo questo percorso lunghissimo sopravvivono le paure, l’adattamento, la resilienza, la Metis (come la chiamavano i greci), la capacità di risolvere problemi e di guardare sempre avanti. Guardare avanti presuppone competenze che vengono dal passato: senza di esso non si può immaginare il futuro. L’uso massivo dei social è una comunicazione usa e getta, che si cestina un attimo dopo, non si stratifica. La nostra mente, comunque, ha bisogno di certezze, di ancoraggi, di spazi dentro i quali ritrovare il proprio equilibrio stabile. Ecco perché, essendo fiducioso nell’umanità in genere, sono convinto che nonostante tutta la decadenza culturale attuale, persisterà un’elite, un insieme di gente che mai potrà rinunciare al sentimento, alla commozione, alla sensibilità emotiva che può suscitare un verso o racconto riuscito bene. Finirà, sicuramente, in maniera positiva.

 

 

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Susanna Basile
Susanna Basilehttp://www.susannabasile.it
Susanna Basile Assistente di redazione Psicologa e sessuologa
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