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La posta in gioco

Il governo Meloni, vorrebbe intervenire nella parte della Costituzione che regola la forma di governo del Paese introducendo il premierato, ossia l’elezione diretta del Presidente del Consiglio

Il governo Meloni, vorrebbe intervenire nella parte della Costituzione che regola la forma di governo del Paese introducendo il premierato, ossia l’elezione diretta del Presidente del Consiglio.
Al momento il Presidente del Consiglio non è eletto direttamente dai cittadini, ma è nominato dal Presidente della Repubblica e deve ottenere la fiducia del Parlamento.
L’elezione diretta del Capo del Governo viene commentata dai suoi sostenitori come una riforma necessaria, simbolo di modernità ed efficienza.
Ma siamo sicuri che l’investitura del popolo nel conferire al Presidente del Consiglio pieni poteri, sia la soluzione ai problemi di efficienza politica del sistema paese?
Non vi è dubbio che l’idea di avere un capo di governo plenipotenziario e per investitura popolare accenda oggi la fantasia di quanti sognano un ritorno della monarchia e comunque ai nostalgici di un certo tipo di Capo di Stato, decisionista, interventista, capace di adottare scelte rapide e non censurabili, se non ex post. D’altra parte L’Italia che ha conosciuto la monarchia ed il fascismo non è certo nuova a tali suggestioni.
Durante la scorsa legislatura, tra il 2018 e il 2022, sono state approvate tre riforme costituzionali: quella che ha ridotto il numero dei parlamentari; quella che ha abbassato da 25 a 18 anni la soglia minima di età per votare al Senato, approvata nel 2021, e quella che ha introdotto in Costituzione la tutela dell’ambiente, nel febbraio 2022.
Il ricorso alla legge costituzionale quindi non è una novità; semmai lo è certamente il suo contenuto, cioè quello che si vorrebbe modificare oggi con la riforma costituzionale. Insomma la posta in gioco.
E’ del tutto rassicurante in periodi come l’attuale, di fronte a problemi di ordine pubblico, di controllo dei flussi migratori, di stagnazione economica, di incertezza internazionale, sognare di demandare ad un Capo, uomo o donna, forte e capace il potere decisionale.
I sostenitori di questa ‘svolta’ costituzionale insistono nel sottolinearne l’investitura popolare, cioè il fatto che il nuovo Capo di Stato risulterebbe eletto per investitura popolare diretta, plebiscitaria, insomma sarebbe democraticamente eletto.
Il punto vero della questione è che la riforma interviene con due effetti altamente dirompenti:
1. esautora definitivamente la funzione del Parlamento, considerato dai sostenitori della riforma un bivacco inutile e dannoso, dove la più piccola forza politica è attualmente in grado con la sua minuscola rappresentanza parlamentare di paralizzare l’attività di approvazione delle leggi e conseguentemente il programma di governo dell’esecutivo;
2. scolorisce ed evapora i compiti e le funzioni del Presidente della Repubblica, figura che nel corso degli anni ha invece acquisito un ruolo sempre più specifico di indirizzo e controllo, specie nei periodi crisi istituzionale.
Tralasciando in questa sede di commentare il secondo dei due effetti in quanto il Presidente della Repubblica è un’istituzione relativamente recente, c’è da chiedersi se le nostre istituzioni possono davvero fare a meno dell’assemblea parlamentare e a quale prezzo.
Può essere utile riprendere, come spesso sono solito fare, l’insegnamento della storia romana.
Nell’antica Roma l’assemblea era un’istituzione collegiale che operava sui principi della democrazia, diretta o indiretta. Le funzioni delle assemblee erano varie da quelle legislative esecutive o religiose e variavano nel corso del tempo, in relazione all’evoluzione politica e sociale della città.
L’impero romano abolì le assemblee romane e le sostituì con un sistema di governo centralizzato.
Tuttavia (e qui è il punto) l’abolizione non avvenne in un solo momento ma fu un processo graduale che si estese per diversi secoli.
Oggi invece in un sol colpo verrebbero fatti fuori l’organismo assembleare sovrano (Parlamento) e l’organo maggiormente rappresentativo dell’istituzione repubblicana (il Presidente della Repubblica).
E poi: quello che si vorrebbe ottenere con il premierato è davvero l’unico rimedio possibile per ridare efficienza e credibilità al nostro sistema rappresentativo democratico?
Non ne sono così certo anche perché ove introdotto, il premierato necessiterebbe di anni di ‘rodaggio’ come tutti i nuovi sistemi. Forse sarebbe più utile studiare dei rimedi per riformare in meglio il Parlamento.
Ad esempio per l’assemblea parlamentare si potrebbe prevedere una soglia di sbarramento elettorale più elevata dell’attuale (3%) che possa compattare, omogeneizzandole, le rappresentanze parlamentari.
Le proposte di riforma costituzionale che si possono studiare nell’ambito delle istituzioni esistenti sono molteplici e non siamo certo qui a farne un noioso trattato.
Vi è però un altro aspetto non secondario che anche l’uomo della strada coglie come un obiettivo impedimento all’approdo utile della chiesta riforma.
Per riformare la Costituzione, così come per approvare qualsiasi altra legge costituzionale, non è sufficiente l’approvazione di una normale legge, che richiede solamente la maggioranza semplice delle due camere, ma occorre una speciale procedura di revisione prevista dall’articolo 138 della Costituzione stessa. Secondo questo articolo, la Camera e il Senato devono approvare la proposta di riforma costituzionale due volte nel medesimo testo. Se nella seconda votazione entrambe le camere approvano il testo a maggioranza dei due terzi dei componenti, la proposta di riforma si considera definitivamente approvata. Se invece nella seconda votazione si raggiunge solo la maggioranza assoluta, la riforma costituzionale può essere sottoposta a referendum popolare per confermarla.

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La maggioranza politica che promuove il premierato non ha la forza sufficiente per approvare la riforma con la chiesta maggioranza e dovrebbe chiederne al paese la conferma tramite referendum costituzionale.
Sembra che la parola in ogni caso debba tornare agli elettori perché la classe politica come spesso avviene in questi tempi è incapace di trovare una soluzione condivisa, divisa com’è su tutto dalla guerra ai pannolini.
In questo senso io credo che finché non si ripristinerà un minino di vivibilità istituzionale, utilizzando le regole già scritte in Costituzione, ogni riforma, con qualsiasi maggioranza è destinata a naufragare.

 

Il quadro descritto che ho cercato di rendere il più chiaro possibile, esprime quella che è la posta in gioco.
Credo sia opportuno mantenere ampio e partecipato il dibattito costituzionale, senza voler imporre soluzioni estemporanee che il nostro sistema potrebbe finire per adottare in modo superficiale ed immaturo.

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Claudio Basile
Claudio Basile
Avvocato Claudio Basile Per info e contatti: [email protected]
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