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L’angelo e il pipistrello. Aver paura per comprendere secondo Salvo Vasta

(di Salvo Vasta) Da settimane l’editoria e il giornalismo si affannano a cercare parallelismi con il passato: sia quello che ci ha insegnato qualcosa, sia quello che non ci ha insegnato nulla. O meglio, quel passato nel quale non siamo riusciti a leggere a fondo avvertimenti e significati. Nelle stranezze dette dagli uomini finiamo sempre per ritrovare qualche precorrimento, che sia Tiresia o Cassandra non importa.
Il futuro, cioè il presente di queste settimane che qualche tempo fa veniva scritto e analizzato come futuro da indagatori preveggenti, appare ancor più disordinato dell’oggi, del quale si cerca disperatamente di mettere in ordine i pezzi per poterlo ricomporre e dominare.

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Il passato stranamente ci appare ordinato e limpido, intatto e logico; come ormai nel regno della necessità ci appaiono i racconti e i romanzi sugli appestati, che sono diventati i migliori resoconti. E i resoconti, anche i più insignificanti, sono diventati racconti notevoli.

Lo sforzo migliore per poter capire il passato è che esso riaccada nel presente, non tanto perché uno stesso evento debba ripetersi, ma perché almeno di esso se ne ripresenti qualche brandello di significato da poter vivere sulla propria carne. Così, non puoi sapere cosa sia veramente la guerra se non sei “nella” guerra e non puoi sapere cosa sia la pace se non sai vivere e mantenere uno stato di pace con te stesso e con i tuoi simili. Da questo punto di vista i vivi sono fortunati nel poter conoscere in forma contraddittoria cosa sia quello stato di sconvolgimento di vita che in queste settimane appare nella forma di un gioco simulato, all’interno di regole che hanno ancora un sapore amaro di pace. I morti sono stati l’oggetto della partita di una natura che ha dimostrato la sua potenza.

 

Quella specie di disegno visionario, quasi dadaista, che risponde al titolo di “Angelus novus” di Paul Klee, che Walter Benjamin acquistò negli anni Venti e tenne con sé fino al suicidio per non essere consegnato ai nazisti nel 1940, è un inquietante contrassegno del chiasmo di guerra e pace, di terrore e di ravvedimento, di avvertimento e di consiglio. Nelle “Tesi di filosofia della storia” Benjamin sceglie quello schizzo più che abbozzato per esemplificare l’immagine dell’Angelo giustiziere della Storia, il quale non a caso possiede tratti inquietanti e sguardo traverso. Ha mani umane e quasi ali di pipistrello. Il cuore è una clessidra piantata nel centro del petto, segno del battito del tempo. La coda e le zampe sono di un uccello rapace – forse un’aquila o la nottola di Minerva? (per la cronaca: la nottola comune è anche un pipistrello della famiglia dei Vespertilionidi) che guarda dall’alto l’umanità che scrive la sua storia.

 

Quello di Klee doveva essere una nuova forma di angelo, un Angelus “novus”, forse apocalittico: nulla in comune con lo Zohar della mistica ebraica, secondo la quale, bellissimo, egli appare e scompare per lodare Dio in un “eterno ritorno”. Invece, l’Angelo di Klee è “nuovo” perché ha il volto del caprone satanico, è un lucifero i cui capelli arricciati sono le veline dei giornalisti e le pagine degli storici. I suoi boccoli ricordano le carte sparse del solito passato che ritorna, degli schemi umani, delle ricorrenze, delle ricorsività mitiche (che Benjamin adorava), insomma siamo noi stessi in un altro modo. Ecco perché non dobbiamo aver paura di questo presente che come in una bolla ovattata la medialità delle pubblicità frastornanti della tv mischia al triste bollettino dei vivi e dei morti e alle previsioni del tempo; dove tutto si riavvolge potentemente su sé stesso e pensieri razionali e soluzioni irrazionali sono insensatamente accostati gli uni alle altre negli insopprimibili talk per corrispondenza.

Non dobbiamo avere paura di tutte queste cose e di molte altre che in queste ore, settimane e mesi si succederanno. Perché se abbiamo paura di esse, significa che abbiamo paura di noi stessi e di come abbiamo costruito la nostra sapienza e la nostra insipienza. Benjamin lo aveva capito bene, perciò amava dire che il vero senso del passato è la sua “rammemorazione”: quel qualcosa che attraverso una intuizione potente salda insieme lo storico, il suo presente e il passato che improvvisamente gli si para davanti nel suo significato più profondo. Leggere del passato ciò che più somiglia all’oggi non ci deve indurre al conforto o allo sconforto, ma alla comprensione del significato, seppur scandaloso della nostra animalità e spiritualità. Ognuno lo faccia a suo modo: attraverso la fede o la ragione, la scienza, l’antropologia, la filosofia, persino il senso comune. Scoprirà sempre la medesima cosa: che non è detto che queste cose si riesca a capirle sempre con facilità nei momenti di vita ordinaria. A volte è necessario che un presente eccezionale ci costringa a farlo, per ripartire da un inizio che è sempre uguale: quello spinoziano del “non ridere, del non piangere, ma del comprendere”.

 

 

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Salvo Vasta
Salvo Vasta
Salvo Vasta è professore di Storia della filosofia contemporanea nell’Università di Catania.
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