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“1917” di Sam Mendes

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Una lama che taglia lo spettatore come burro. Sam Mendes ci regala una gioia per gli occhi con questo suo ultimo film ,“1917”, ispirato dalle narrazioni di suo nonno che aveva preso parte alla Grande Guerra. L’operazione di Mendes è molto intelligente; di fatto siamo dentro un videogame e la struttura del film è quella tipica di un prodotto da PS4, ma la sostanza poetica dell’opera è assolutamente cinematografica. Siamo lontani, per intenderci, dal classico riadattamento di un videogioco per il grande schermo, perché il senso di questo film è solo apparentemente citazionistico. Gli evidenti e inevitabili riferimenti a Kubrick, Stone, Nolan stanno lì a significare la de-mitizzazione della cultura dell’Opera Consacrata. Del resto sarebbe inevitabile realizzare un film di guerra senza ricorrere alla citazione del già visto, della trascrizione visuale di una memoria che è ormai solamente digitale. In questo senso “1917” è un film “originale”, perché opera consapevole del rischio in atto: nessun cinema è più possibile, secondo Greenaway, perché fondamentalmente il cinema ha smesso di incantare lo spettatore come forma d’arte “in sé”, essendosi oramai reso – nella sua sostanza – mero processo illustrativo di testi e narrazioni antecedenti. Mendes trae invece ispirazione dalla struttura narrativa del videogioco: iperrealismo e multilivellarità diventano i codici funzionali alla messa in scena, prima in coppia e poi in solitaria, della missione del caporale Schofield, stratagemmi per recuperare in chiave dialettica “ciò che resta del cinema”. A distanza di un secolo (se ci pensiamo bene poca roba nella storia dell’uomo), Mendes ci pone di fronte all’assurdo della guerra, al nostro immaginario generazionale che oramai è solo cinematografico, – giacché nessuno di noi ha mai vissuto l’esperienza della Guerra Reale, la brutale fenomenologia dei fatti – e lo fa presentando il soggetto desoggettivato Schofield nella sua funzione di soldato eterno, di eroe immanente, simbolo della soggettività portata al limite estremo che collassa in oggettività. L’immersione della storia nel contesto tipico della narrazione da videogame operata dal regista, è frutto di un progetto che mira a decontestualizzare l’orizzonte espressivo del cinema stesso, progetto che oserei definire “sperimentale” nelle sue peculiarità.

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Certamente, per cogliere simili sfumature, occorre essere dentro anche a codici ed estetiche proprie del mondo videoludico, altrimenti si corre il rischio, se ci si accosta a “1917” con criteri estetici inopportuni, di derubricare il dettaglio saliente, che è di natura strettamente poetica, dall’agenda critica. “1917” di Sam Mendes è un contenitore che lascia spazio alla fantasia dello spettatore, nella fascinazione tipica di un’opera visivamente meravigliosa. Diceva Carmelo Bene: “Ci sono cretini che vedono la Madonna, e cretini che non la vedono. La differenza è che i cretini che vedono la Madonna, quando si buttano dalla finestra volano, mentre i cretini che non la vedono, quando si buttano dalla finestra cadono”.

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