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Venere e Adone: la crudeltà della giovinezza e della bellezza

Amenanos Festival 2021 dal poema di Shakespeare

“Venere e Adone” di William Shakespeare, in scena il 17 settembre con Gianluigi  Fogacci (William Shakespeare), Melania Giglio (Venere), Riccardo Parravicini (Adone). Regia, traduzione e adattamento di Daniele Salvo è stato un lavoro che ha colpito a fasi alterne. Interessante la scelta di una Venere in versione un po’arpia un po’ moira un po’Ecate che gongola della sua vetusta bellezza e soprattutto della sua sensuale esperienza…

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In qualche modo distrutta da questa bellezza giovanile (ma non era lei stessa una Dea?), quella di Adone, dedito ad altro che non sia la passione per la caccia, o meglio ancora ad un diverso orientamento sessuale. Oggi diciamo così ma anticamente se Adone conserva le sue fattezze un po’ femminili azzeccate da Riccardo Parravicini elegante e insofferente, un po’ da tronista con tanto di tartaruga, bravo molto convincente, pulito nella sua impeccabile posizione, ebbene all’epoca dei miti greci l’efebo Adone era di fattezze rosee e morbide come Ganimede, il giovane amante di Giove. Ma forse Venere voleva assorbire l’energia del giovane per poter tornare alla sua innocente giovinezza. Ma non era una dea? E gli dei sono immortali e non invecchiano mai a meno che nascono vecchi e sciancati come suo marito Vulcano.

La storia è presto detta: Adone, bello, bellissimo non cede alle lusinghe di Venere. Durante una caccia al cinghiale muore per la disperazione di Venere. La nostra era una Venere un po’ madre vanitosa, incestuosa e a forza necessariamente virtuosa. Sì un accoppiamento c’è stato ma era nel momento in cui Adone venne infilzato dal cinghiale infuriato. Sacrificio sull’Ara di Venere che a tratti diventa parodia che rasenta la pateticità cercando di farsi consolare dal nostro bardo: “non sono forse bella come una fata dei boschi o come una ninfa di lago?” “meglio una ninfa” risponde il nostro, che dopo un inizio titubante procede con scioltezza e con noncuranza sul suo essere Shakespeare.

Una buona soluzione della scenografia che nel nostro Teatro Greco incanta: una gabbia dorata dove inserire la fulgidità dell’amore…la gabbia che gira come la ruota della vita… ma venere non cantava, forse nella Norma di Bellini c’era un’aria “Meco all’altar di Venere”. Ma Venere non cantava!

Venere e Adone è uno dei poemi più lunghi di William Shakespeare, costituito da 1194 versi. Il tema, ispirato dal decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio, è sviluppato da Shakespeare in maniera originale con il rifiuto delle avances amorose di Venere da parte di Adone. Il poema è centrato sui due personaggi, e si svolge in uno stesso luogo, nel tempo che intercorre tra l’alba e il tramonto dello stesso giorno, come concettualmente poteva durante un festino orfico con sacrificio finale.

Infatti il mito non riguarda la bellezza, ma va cercato in motivazioni di carattere sociale o politico-religioso: l’unione del giovane con la dea è conferma mitico-rituale della ierogamia (unione sessuale sacra) come un infausto accoppiamento orgiastico secondo chiaramente la nostra prosaica visione. La bellezza viene esplicitata solo come causa dell’innamoramento di Venere, mentre il percorso del ragazzo si snoda fra strutture mitiche di ben maggiore pregnanza, la doppia pertinenza ctonia (divinità sotterranee) e solare, la nascita, l’incesto, la caccia, la morte precoce e il sacrificio come dicevamo, per propiziarsi gli dei.

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