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“Il traditore” di Marco Bellocchio

“Senza dubbio, i segreti di Stato sono sempre esistiti; ogni governo deve classificare le proprie informazioni, non renderle pubbliche, e colui che rivela degli autentici segreti è sempre stato trattato come un traditore.” (Hannah Arendt).
Bellocchio è tornato a fare “cinema”, finalmente, cinema passionale, convincente, civile e tragico, riconnettendosi al grande solco della tradizione del cinema sulla mafia che, in Italia, comincia con Pietro Germi, e prosegue con i vari Francesco Rosi, Damiano Damiani, Elio Petri, Dino Risi, Pasquale Scimeca ecc.
Senza entrare nello specifico dei fatti, oramai consegnati alla storia, “Il Traditore” potremmo considerarlo, usando una terminologia contemporanea, uno straordinario “crime movie”, appassionante in ogni suo aspetto, girato e condotto con un ritmo mozzafiato. Bellocchio orchestra i fatti di mafia intorno al suo “primo violino” Pierfrancesco Favino (Tommaso Buscetta) – forse mai così convincente e bravo come nel ruolo del “Boss dei Due Mondi” -, e lo fa immettendoci subito, fin dall’ouverture, dentro un’atmosfera di pathos e apprensione, a dispetto dell’immane mole delle tematiche trattate (i fatti di mafia dagli anni Ottanta alla morte di Buscetta: vicende talmente intricate e complesse che, in altre mani, sarebbero molto probabilmente state oggetto di verbosissime digressioni e interludi). Fortunatamente Bellocchio si affranca dalla tirannia del “riassunto” e ci catapulta dentro la tragedia universale di “Don Masino”, muovendo e tessendo la sua tela come un ragno, con ciò rendendo l’articolata trama avvincente agli occhi dello spettatore, che si trova fin da subito travolto da un turbine di cronologie accelerate.
Scorrono così i giorni, i mesi e gli anni, fra morti, squartamenti, amputazioni, strade che esplodono, e poi negli sguardi, nella mimica, nei dialoghi di quel teatro dell’assurdo che fu quell’epoca tragica segnata dal regno brutale di Toto’ Riina.
E qui Bellocchio gioca un’altra splendida carta: il film è interamente parlato in dialetto palermitano e sottotitolato; con ciò egli ottiene il fondamentale risultato di reificare la “verità sonora” di quel clan e di quello specifico luogo-teatro-cosmo, senza la quale il film sarebbe risultato come depauperato della sua stessa linfa (che è poi lo stesso problema che emerge al maxi processo durante la deposizione di Contorno relativamente alla scarsa comprensione del dialetto da parte dei giudici del “Nord”, che chissà quali elementi fondamentali avrà sottratto alla sentenza finale). E, grazie a questa “esperienza del sonoro”, oltre che per la vibrante forza delle immagini, lo spettatore può avere accesso (per assonanza) ai codici necessari atti a penetrare lo schermo che apparentemente divide la realtà peculiare del microcosmo della mafia da quella ufficiale e altrettanto subdola dello Stato, e può assistere sinesteticamente al vanificarsi dell’illusoria barriera che sembra separare l’autoctonia dall’alterità (“le culture creano la realtà in cui credono e credono nella realtà che creano” – Peter Sloterdijk).
“Il Traditore” di Bellocchio è questo cortocircuito qui: memoria gattopardesca e ragion di stato, una violenta scarica elettrica che è in grado di connettere presente e passato in un “unicum” che si fa cinema e dove la morte del giudice Falcone è anche morte di Buscetta e di tutto un modo-di-fare-giustizia che vedremo palesarsi negli anni a venire (vedi il successivo processo in cui Andreotti tramite i suoi avvocati, delegittimerà l’impianto romantico di certe testimonianze).
In definitiva, uno stupendo affresco e una grande pagina di cinema.

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