(Adnkronos) Alza la voce e scandisce bene le parole, il pm Stefano Luciani, quando
dice al Tribunale che “il più grande depistaggio della storia italiana nasce a Pianosa”. E’ qui che viene interrogato il falso pentito Vincenzo Scarantino, che con le sue bugie e contraddizioni, ha fatto condannare degli innocenti per la strage di via D’Amelio che il 19
luglio del 1992 costò la vita al giudice Paolo Borsellino e a cinque agenti della scorta. Parole che già erano state utilizzate da un giudice, Antonio Balsamo, oggi Presidente del Tribunale di Palermo, quando scrisse le motivazioni del processo Borsellino ‘quater’. Lo definì “il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”.
E oggi il pm, iniziando la requisitoria del processo che vede alla sbarra tre poliziotti accusati di calunnia aggravata in concorso, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, lo ribadisce.
Secondo l’accusa, i tre poliziotti avrebbero indotto, “con minacce” l’ex pentito Scarantino a dire il falso e ad accusare persone estranee alla strage Borsellino. E il pm Luciani, all’aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta, spiega, passo dopo passo, come si arriva
al “depistaggio”. Partendo dall’arresto di Scarantino, che definisce un “collaboratore costruito a tavolino”, fino ad arrivare al suo interrogatorio a Pianosa del 24 giugno 1994. “Quindici giorni dopo l’arresto di Vincenzo Scarantino, avvenuto il 29 settembre 1992,
atterra sul tavolo del procuratore di Caltanissetta Tinebra una nota del Sisde con a capo Bruno Contrada, veicolata attraverso la Squadra Mobile di Caltanissetta nella quale, incredibilmente, il Sisde anziché dire che Scarantino è un piccolo delinquente di borgata, lo definisce un boss mafioso”.
Ecco, secondo la Procura di Caltanissetta, dove tutto ha inizio. “Da quel momento Vincenzo Scarantino subisce un pressing asfissiante. A Venezia, a Busto Arsizio, viene sottoposto a interrogatori costanti e ripetuti – ribadisce il pm- Viene sottoposto a plurimi procedimenti
penali a condanne per traffico di droga, rinviato a giudizio per la strage. Vincenzo Scarantino arriva al 24 giugno 1994 che è un uomo esasperato”. Ma, nel corso della requisitoria, che proseguirà anche domani, e il 10 e l’11 maggio, il magistrato, che oggi presta servizio alla Procura di Roma ed è stato distaccato per concludere il processo
sul depistaggio, ha anche accusato duramente alcuni poliziotti, ex appartenenti al Gruppo ‘Falcone e Borsellino’, di cui facevano parte anche i tre poliziotti imputati, che hanno deposto al processo.
“I testi del pm, poliziotti ex appartenenti del Gruppo Falcone e Borsellino, si sono trasformati in testi della difesa e lo hanno fatto in maniera grossolana”, dice. E ribadisce: “Sono certo che questo comportamento che per alcuni non ha fatto onore per la divisa
che indossano, sia stato segnalato per chi di competenza”. Dice: “Gli ex appartenenti del Gruppo Falcone e Borsellino, sentiti in questo processo, diventano vaghi, sfuggenti, costellati da vari ‘non ricordo’ con alcuni momenti di lucidità in cui ricordano e poi non ricordano più”. E cita uno dei testi: “E’ venuto, ad esempio, un signore, Gaspare Giacalone, e cosa ci ha tenuto a dire? ‘Sono andato a Pratica di mare, non ricordo se c’erano anche magistrati e siamo andati a Pianosa, per fare l’interrogatorio di Scarantino e siamo tornati’.
Sulla base di questo e di un dato documentale che è l’acquisizione dei piani di volo dell’elicottero che fa la spola Pianosa-Pratica di mare, ci vorrebbe dire che quel giorno La Barbera non aveva fatto il colloquio investigativo – dice il pm Luciani – Dal controesame del pm il teste mostra incertezze. Non è così certo come mostra di essere in sede di esame del pm e c’è un ulteriore dato: la volontà di Scarantino era evidentemente veicolata fino alla Procura di Caltanissetta e siccome non è documentato un modo alternativo rispetto al colloquio investigativo ne dobbiamo desumere che il colloquio investigativo c’è
stato e che La Barbera la partecipa a Tinebra e che poi si organizza l’interrogatorio e la documentazione prodotta non prova né smentisce nulla”.
Una lunga parte della requisitoria è stata dedicata alla figura di Vincenzo Scarantino. E a quanto raccontato sia dallo stesso falso pentito che dalla ex moglie, Rosalia Basile. “La moglie di Scarantino fece mettere a verbale che il marito le diceva: ‘Non mi lasciano in
pace sono sempre qua’. Scarantino, come diceva la moglie, veniva malmenato, gli mettevano i vermi nella minestra, gli hanno instillato il dubbio di essere affetto da Hiv. Lo facevano spogliare nudo, gli dicevano che lo volevano impiccare”. Luciani ha quindi letto in aula le dichiarazioni rese da Rosalia Basile. “Mio marito mi diceva che gli avevano iniettato il siero dell’Aids, sapendo che era geloso, gli instillavano il dubbio che io avessi l’amante’ – dice il pm – Sono esattamente le stesse cose che ha ripetuto 21 anni dopo davanti a
questo tribunale. E ancora la moglie riferiva: ‘Io so che questo Arnaldo La Barbera non lo lasciava in pace, capendo che era un soggetto fragile. Lui mi ha sempre detto che non c’entrava nulla con la strage ma che gli avevano promesso la libertà e denaro”.
Poi prosegue: “Scarantino aveva raccontato alla moglie che aveva incontrato a Pianosa Arnaldo La Barbera. Scarantino veniva minacciato di morte, gli veniva detto che gli facevano fare la fine di un ragazzo che era morto in carcere. Erano loro i poliziotti di La
Barbera”. Dopo l’arresto, “subì un pressing asfissiante. Il 24 giugno 1994, quando disse di volere parlare della strage Scarantino era un uomo, disperato, sfiancato”. Sempre la moglie ha detto agli inquirenti: ”La prima volta che lo andai a trovare a Pianosa, mi disse che lo torturavano, fisicamente e psicologicamente. Arnaldo La Barbera e altri poliziotti. Gli dicevano che lo avrebbero impiccato e che avrebbe fatto la stessa fine di Gioè. Un giorno, gli dissero che forse aveva l’Aids”. “Tutte le dichiarazioni rese da Vincenzo
Scarantino sono dichiarazioni che dal 1998 sono uguali a loro stesse.
Nel marasma delle ritrattazioni ci sono alcune vicende che sono state raccontate sempre allo stesso modo”, spiega. Insomma, per Luciani “Vincenzo Scarantino è stato indotto ma ci ha messo anche del suo”.
“Buona parte delle dichiarazioni che nel tempo fa Vincenzo Scarantino sono frutto di sue personali rivisitazioni di circostanze apprese dalla stampa o esperienza di vita vissuta, per come gli era stato detto di fare”, dice ancora il magistrato. “Scarantino è stato indotto
a fare dichiarazioni ma che quel canovaccio non fosse tutto ascrivibile a induzioni e contenuto di dichiarazioni che gli sono state dette di fare, ma anche ascrivibile a iniziative di Vincenzo Scarantino, ed è quello sostenuto nel Borsellino quater che non ha
assolto Scarantino ma lo ha dichiarato prescritto”. “Scarantino, quindi, è responsabile, e la responsabilità va data, in parti uguali o no non mi interessa, ma va data a entrambi. Il canovaccio fu riempito anche delle sue goffe dichiarazioni”, aggiunge il pm.
Una requisitoria che arriva dopo settanta udienze e la testimonianza di oltre 110 persone. “Questo processo, anche in virtù dell’aggravante, ha anche l’obiettivo di comprendere quali siano le ragioni alla base delle condotte che questo processo ha cercato di sviscerare”, dice poi il magistrato. E poi aggiunge: “Mi scuso in anticipo con le parti civili di questo processo perché la requisitoria che mi accingo a fare certamente non sarà adeguata a quella che sarebbe dovuta essere la conclusione di un processo di questa portata
– dice ancora Luciani – Non sto qui certamente a sottolineare, benché certamente parliamo di imputazioni precise nei confronti di soggetti ben determinati, le implicazioni ulteriori che ha questo processo.
Certamente meritava una discussione diversa da parte del pubblico ministero”. Tra le parti civili ci sono alcuni degli imputati che furono condannati ingiustamente per le parole di Scarantino ma anche i familiari di Paolo Borsellino.
Luciani ha quindi ricordato quando nel 2008 il pentito Gaspare Spatuzza, che ha fatto scoprire le falsità di Scarantino, “inizia a raccontare una verità che da subito è apparsa dirompente. Ed era una verità che andava a sconvolgere ben due processi che si erano
già celebrati per la strage di via D’Amelio e che andava a mettere in discussione condanne all’ergastolo. E’ facile dunque comprendere che tipo di impegno attendeva la procura di Caltanissetta e le altre procure interessate”. Ha anche ricordato che “Questo processo ci pone in linea di continuità con il processo Borsellino Quater che ci ha rassegnato una verità e cioè che quelle condanne erano state comminate sulla base di prove manipolate che consistevano essenzialmente, ma non solo, in prove dichiarative. Era stata manipolata la collaborazione di Salvatore Candura, quella di Francesca Andriotta e infine quella di
Vincenzo Scarantino”.
Il pm ammette anche che lo ha “molto addolorato avere sentito in questi anni parlare del lavoro che è stato fatto, con attenzione, con scrupolo e rispetto, delle ragioni e possibili implicazioni, come di un lavoro” fatto solo grazie al collaboratore Spatuzza. “Dopo il suo
arrivo qualcuno ha detto: ‘E che ci vuole?’ – dice – Io mi permetto di dire che questa è una costruzione riduttiva, ad essere buoni. Prima di Spatuzza c’era stato Giovanni Brusca e prima Giovambattista Ferrante e Gioacchino La Barbera.
Mi sia consentito dire che quando Spatuzza si è seduto al tavolo dei pm si è avuto il coraggio di riprendere da capo ciò che stato fatto e poi raggiungere gli esiti processuali consacrati nel quater. E’ riduttivo dire che è il processo alla solita macelleria mafiosa”. L’udienza riprende domani mattina alle 9.30.