(di Salvo Vasta) Da qualche tempo le librerie hanno già predisposto un settore Covid: specchio del marketing dei tempi, dell’editoria e di chiunque abbia scritto o sia stato sollecitato a farlo, in barba ai consigli della metodologia storica e filosofica. Conoscenza e attesa sono fondamentali per poter esprimere un giudizio. Al momento forse è più opportuno collazionare fatti e mettere a punto categorie.
Il Covid, come molte delle esperienze collettive assaporate dall’umanità, ci ha inizialmente indotto all’euforia, alla voglia di dire la nostra. Molti asserti e riflessioni, com’era prevedibile, rimarranno più che un soffio di vento quando si incolla alle foglie caduche.
Vorrei ribadire l’affermazione in altro modo: è ancora troppo presto per esprimere un giudizio sulla portata e sui significati (se ne vogliamo trovare alcuni che siano veramente validi e veri) di questa ulteriore “tappa” dell’umanità, a tratti vissuta da molti con vergognosa euforia, da altri con spirito di rapace predazione, da altri ancora con sintomo di rassegnato realismo. Da pochi, con razionale umano civile impegno. Ancora non sappiamo come e cosa cambierà. Ci troviamo nel bel mezzo di un viaggio, anche se tanti sono convinti, o sono stati indotti da altri a farlo, che la mèta sia stata traguardata. Anzi, sono realisticamente sicuri di essere già sbarcati dalla nave e di essere in tour.
Il reale interrogativo sull’intera questione non ritengo sia (soltanto) sul “dopo”, ma sulle qualità dell’uomo di “adesso”, che ha visto confermare l’essenziale natura di parecchie delle sue notorie ricorrenti azioni. Verrebbe da dire natura “immutabile”, conferendo al termine non il significato perentorio della staticità, ma il fatto che pur nell’incessante cambiamento, il crogiolo profondo di quella natura si è ormai stabilizzato su parametri per lo più ripetitivi e orientati esclusivamente verso categoria dell’utile.
Forse ci siamo stancati della libertà, del suo vero significato. Al pari di un giocattolo molto usato ci siamo dimenticati del valore della conquista per ottenerlo, del desiderio secolare per agguantarne una forma che fosse più prossima all’ideale del tempo o al raggiungimento di un’utopia eterna. Di fronte ai problemi planetari ci dimentichiamo di essere liberi, piegando sovente le teste alle realpolitik degli stati, coltivando nella migliore delle ipotesi il “particulare” di un personale interesse.
Viene da pensare che le varie fasi attraversate dal capitalismo e le diverse maschere che esso ha indossato abbiano come finalità ultima lo sfiancamento della specie umana. Il capitalismo nella forma consumistica accelera taluni comportamenti e ne rallenta altri, di solito di estrema importanza. Tra essi rientra la fatica del cercare e il discernimento, nel momento in cui siamo chiamati a operare scelte importanti. A entrambi gli atti rimonta il concetto di libertà. Liberi di essere, liberi nel poter scegliere. Posture complesse, queste, perché comportano l’esercizio costante e sempre attento della razionalità intesa non come principio astratto, ma come fondamento del comportamento sociale. Ciò implica che si debba essere morali, innanzitutto perché si è esseri razionali.
Il risultato è che ci siamo stancati della libertà di gestire al meglio la razionalità, perché essa presuppone un imperativo morale assunto non solo pro forma. Del resto, nel momento in cui ci accorgiamo (e ce ne siamo accorti) che un impedimento temporaneo alla libera circolazione (che qualcuno ha assimilato, scambiandolo, per privazione di Libertà) può operare su di noi una semplice limitazione alla vitale partecipazione del regime consumistico cui siamo assuefatti (perché di questo si tratta), allora si è levata la testa.
Non abbiamo reagito contro l’evento pandemico; ci siamo invece rivoltati perché non abbiamo potuto esercitare la parte di “liberi consumatori” che ci è stata assegnata. E vista la coincidenza di interesse, il sistema del capitalismo mediatico è subito venuto in soccorso di questa mancanza di libertà, esercitando tutte le sue pressioni sulla politica.
Adesso tutto è compiuto, perché nulla può essere fermato, verrebbe da dire. Il problema dell’homo consumericus – come viene definito dal filosofo e sociologo francese Gilles Lipovetsky il soggetto contemporaneo – è che egli gode di smisurata libertà, ma essa ha valore solo se esercitata dentro “quel” sistema. Fuori da quell’alveo si è anche più che liberi, non si dimentichi. A patto di fare la fatica mentale di esercitare la libertà razionalmente. Il diritto di doverlo o poterlo fare senza ricorrere alla moderazione esita nel libertarismo, che oggi sta assolvendo al ruolo inconsapevole di utile idiota del consumismo.
A chi commette l’errore di scambiare il diritto di essere libertario, con la piena affermazione della personale libertà individuale bisognerebbe ricordare, solo ricorrendo al buon senso, che pretendere di attuare ogni genere di libertà e pienamente significa alla fine non poterne praticare alcuna.