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martedì, Aprile 30, 2024
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La speculazione nell’arte: perché la Formica uccise la Cicala

Nell’antropomorfizzazione delle formiche, l’odio per le cicale è assolutamente plausibile. È chiaro che ogni principio espresso con assolutismo sia l’anticamera di un abbrutimento, compresa l’utilità, ma l’arte per sua natura dovrebbe volgere a un’equilibrata mediazione tra emotività e materialità delle cose

Chi, ascoltando o leggendo per la prima volta la favola di Esopo, non ha avuto bisogno di un’esaustiva spiegazione della morale? Per chi l’avesse dimenticata, è presto riassunta: durante l’estate, una cicala suona – o canta, a seconda delle interpretazioni – allegramente all’ombra delle foglie, mentre delle formiche si fanno il mazzo per raccogliere scorte di cibo in previsione dell’inverno. La cicala invita le formiche a non faticare tanto, a ripararsi all’ombra delle foglie come lei, a cantare insieme, ma loro declinano l’invito con sdegno e abnegazione: devono raccogliere le provviste per l’inverno senza sosta, a niente servono le insistenze della cicala; non ci è dato sapere se guadagnano a cottimo o si tratta di un puro spirito stakanovista degno di Renatino dello spot della Parmigiano Reggiano. Passa l’estate, cadono le foglie, arriva la prima brina e la cicala inizia a vagabondare in cerca di cibo, affamata e infreddolita. Si imbatte nel formicaio e chiede aiuto, le formiche le chiedono cosa abbia fatto durante l’estate. Lei risponde: Cantavo e riempivo del mio canto cielo e terra. Le formiche rispondono: Hai cantato? Adesso balla! E così finisce la favola, nella maggior parte dei casi; nelle versioni più brutali, si rende esplicita la morte della cicala. Nei testi didattici della scuola primaria, spesso si accompagna la favola al questionario di comprensione con la fatidica domanda: cosa ti insegna questa storia?

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A dispetto della morale tradizionalmente tramandata, ossia quella che dipinge la cicala come una scansafatiche e la formica come una virtuosa lavoratrice – si dice che il famoso cuoco Alessandro Borghese e altri della sua risma, quando leggono questa favola ai loro bimbi, puntualmente si commuovono –, la risposta al questionario di comprensione potrebbe essere che la società tende all’omissione di soccorso, e già basterebbe per capovolgere una morale tutt’altro che “morale”. Ma la risposta probabilmente più interessante potrebbe essere che la società non riconosce l’arte e, anzi, tende a uccidere chi la pratica.

Nella metafora esopica, gli anarchici del primo Novecento avrebbero definito le formiche degli “abbrutiti”: vinti dalla paura della fame inflitta dal sistema, non pensano ad altro se non alla propria sopravvivenza. Marius Jacob, personaggio storico che ha ispirato il letterario Arsenio Lupin, dichiarò in sede di processo di aver dedicato la sua vita al furto proprio per non “abbrutirsi” perché, nell’innaturalezza di svolgere un lavoro che non piace, l’essere umano subisce un offuscamento delle emozioni e della ragione. La dimostrazione lampante è la condotta della formica, che Gianni Rodari non esita a definire avara e conclude:

Io sto dalla parte della cicala
Che il più bel canto non vende… regala!

 L’interpretazione di Rodari è la più rivoluzionaria e, nonostante tutto, si limita a un’antipatia personale nei confronti di quell’essere che fa leva sulla frustrazione personale per una becera rivalsa. Scrive anche una nuova versione della favola, intitolata Rivoluzione, in cui la formica regala metà delle sue provviste alla cicala e per questo viene definita generosa.

Non è l’unica versione a modificare l’esito o le circostanze. In quella di Trilussa, ad esempio, la cicala diventa l’amante di un grillo e si fa mantenere, mentre in quella di Jean de La Fontaine viene aggiunta alla pietosa supplica della cicala la promessa di essere più coscienzioso per l’anno venturo e di restituire quanto gli sarebbe stato dato con gli interessi:

Promettendo per l’agosto,

In coscienza d’animale,

Interessi e capitale.

E, nonostante la proposta capitalista della cicala, la formica rifiuta. Questa versione del 1669 è fondamentale per dimostrare, in misura definitiva, l’abbrutimento dettato dalla paura della fame, prima ancora che dalla fame stessa: è un sistema che non ammette eccezioni, che per far valere l’idea che tutto abbia un prezzo – principio che funge da ottimo specchietto per quelle allodole che vanno a braccetto con l’avidità – omette ogni forma di sentimento o emozione. Lo sfruttamento dei lavoratori è andato avanti per tempo senza la necessità di particolari elaborazioni difensive, controbattendo ogni opposizione con la prepotenza repressiva, l’implacabilità delle condanne aziendali e talvolta col pieno supporto della legge di Stato e delle organizzazioni criminali, la consolidazione delle cerchie di potere e, come unico strumento diplomatico, le forze religiose che promettevano una vita migliore dopo la morte in cambio della piena sottomissione. La prima vera criticità del sistema di sfruttamento è avvenuta con l’avvento della lotta di classe e della consapevolezza dei diritti dei lavoratori ma, in quel caso, è stato trovato un buon accordo affinché lo sfruttamento si rivelasse non più un lineare metodo per trarre maggiore profitto col minimo sforzo degli sfruttatori, ma anche un pretesto perché i difensori degli sfruttati potessero strumentalizzare le cause sociali e specularvi; ed ecco come la sfera emotiva non poteva più essere ignorata ma, anzi, poteva essere sfruttata anch’essa. In tempi più recenti, di pari passo allo sviluppo della globalizzazione e della relativa libertà d’informazione, la classe dei privilegiati – il famoso 1% della popolazione mondiale che detiene la ricchezza pari al restante 99%, secondo i dati Oxfam – ha persino provato ad attribuire alla sfera emotiva un valore di borsa, tra guru improvvisati e pieni di soldi pronti a svalutarla fino alla più accanita speculazione, tirando fuori dal cilindro – più che mai indicato, il copricapo capitalista per eccellenza – massime degne del peggiore romanzo d’appendice mescolato alla fantascienza: L’atto d’amore è l’atto economico per eccellenza. Tanto dai, tanto ricevi. Cyrano de Bergerac e un’altra miriade di innamorati non ricambiati avrebbero da ridire su questa massima e, con ogni probabilità, sono stufi di sentirsi dire che è colpa loro, che non si impegnano abbastanza per ottenere ciò che vogliono e di subire giudizi in salsa capitalista sulle sofferte circostanze emotive. Lo stesso discorso vale per gli artisti, per questo la cicala non è sottoposta alle leggi di mercato della raccolta di provviste in previsione dell’inverno e, potenzialmente, dà il suo contributo proprio con l’apporto artistico. Riempivo del mio canto cielo e terra, dice la cicala, e mentre la “morale” immorale vorrebbe mostrarla come una scansafatiche, l’unica certezza oggettiva è che la formica non ne è capace.

È tuttavia lecito domandarsi come valutare un apporto artistico, dal momento in cui non può essere soggetto a regole di mercato. La risposta risiede proprio in quel bagaglio emotivo che tanto ci spaventa considerare, al punto da trascurarne una coscienziosa analisi che ci consentirebbe di intuire che si tratta del linguaggio dell’esistenza a noi più diretto, che è possibile accostare al famoso Verbo biblico e risponde alla misteriosa e profonda legge dell’armonia: una parte degli esseri viventi percepisce, trasmette e comunica con le emozioni, noi compresi. In secondo luogo, meno spirituale ma non meno importante, anche se Pier Paolo Pasolini ha annientato questo principio nella sua tragedia del 1966 Affabulazione, l’arte non è esente da una valutazione di utilità sociale:

Però so che non c’è bisogno che le azioni
Di vero amore o di vero odio servano a qualcosa,
Che non importa che il mondo che metti in imbarazzo
Col tuo troppo odio o il tuo troppo amore,
L’abbia vinta, infine, facendo di te il suo buffone.
La vittoria è sempre di chi perde.
La vittoria non è mai riconosciuta.
La vittoria è inutile.

 È chiaro che ogni principio espresso con assolutismo sia l’anticamera di un abbrutimento, compresa l’utilità, ma l’arte per sua natura dovrebbe volgere a un’equilibrata mediazione tra emotività e materialità delle cose. Ogni essere umano ha la sua sensibilità – e talvolta creatività – per percepire l’arte, ma si tratta dello stesso impulso che alimenta l’ingegno, che necessita di un costante impegno pratico per far fronte ai problemi quotidiani e che respinge la monotonia, la staticità e più che mai la retorica. Questa consapevolezza rivela una profonda e amarissima verità: una parte dello scarso riconoscimento dell’arte è dovuto a quella moltitudine di artisti cullati sullo snobismo intellettuale, sulla retorica e sull’ansia di doversi mantenere sulla cresta dell’onda mediatica che, a fronte di quanto esaminato finora sul rapporto tra l’arte e le regole di mercato, è una spinta frenetica e insulsa, paragonabile a dei tonni intrappolati che spingono la rete verso i pescatori in superficie. L’illusione della visibilità come fine, in un mondo globalizzato come il nostro, non è altro che un delirio di massa strumentalizzato da chi ricava profitto dal triste fenomeno del divismo: si forgiano nuovi semidei per seminare nuova frustrazione. Dunque, si rivela l’altra parte responsabile dello scarso riconoscimento dell’arte: la formica, così come la presenta Esopo, che non ha altro riscatto dalla propria frustrazione se non quello di mettere in pratica l’unico insegnamento recepito dal suo sistema, ossia la trasformazione da vittima a carnefice, e proprio in questo processo risiede l’abbrutimento delle masse.

Tuttavia, per non scadere nella retorica – guardiamocene bene! – è necessario ricostruire il movente della condotta formichesca. Il primo elemento è la certezza che non le piaccia faticare per raccogliere provviste in previsione dell’inverno, altrimenti non avrebbe reagito con così tanto rancore nei confronti della cicala; il secondo elemento è un prepotente senso di supremazia che confonde per un responsabile senso di equità e, da questo, deriva il terzo elemento, che è il mancato riconoscimento del valore della cicala.

 — Ah…. le canzonette? Roba che non empie pancia, cari miei! —

La zia Cirmena si risentì alfine:

— Voi pigliate tutto a peso e a misura, don Gesualdo! Non sapete quel che vuol dire…. Vorrei vedervici!… —

Egli allora, col suo fare canzonatorio, raccolse in mucchio libri e giornali ch’erano sul tavolino e glieli cacciò in grembo, a donna Sarina, ridendo ad alta voce, spingendola per le spalle quasi volesse mandarla via come fa il sensale nel conchiudere il negozio, vociando così forte che sembrava in collera, fra le risate:

— Be’…. pigliateli, se vi piacciono…. Potrete camparci su!…

Tutti si guardarono negli occhi. Isabella si alzò senza dire una parola, ed uscì dalla stanza. — Ah!… — borbottò don Gesualdo. — Ah!…

Ma visto che non era il momento, cacciò indietro la bile e voltò la cosa in scherzo:

— Anche a lei…. le piacciono le canzonette. Come passatempo…. colla chitarra…. adesso che siamo in villeggiatura non dico di no. Ma per lei c’è chi ha lavorato al sole e al vento, capite?

 (Giovanni Verga, Mastro-don Gesualdo, Parte Terza – capitolo II)

Il protagonista del romanzo verghiano è la rappresentazione più autentica di un abbrutito che non riconosce ciò che lui stesso definisce roba che non empie la pancia. Gesualdo soddisfa la sua esigenza d’ingegno con l’arrivismo che ha appreso e affinato nell’amara vita di campagna ed è, probabilmente, la stessa condotta che ha appreso la formica e che applicherebbe, se non fosse troppo pavida per tentare di distinguersi dal resto delle sue simili. Ed ecco come la formica coltiva indirettamente un senso di malessere per tutta la vita e odia chiunque non le confermi che è l’unico modo di vivere. Odia persino il rampante Gesualdo di turno, anche se dovesse trattarsi di suo figlio:

[…] — sono il padre, sì o no?… comando io, sì o no?… Se mio figlio Gesualdo è matto!… se vuol rovinarci tutti!… c’è la forza […] Vuole la mia rovina!… Nemico di suo padre stesso! — urlava mastro Nunzio.

— Erano forse denari vostri? — scappò infine a gridare il canonico; — non era sangue del figlio vostro? non li ha guadagnati lui, col suo lavoro? —

— Com’è vero Dio!… Io l’ho fatto e io lo disfo!… —

 (Giovanni Verga, Mastro-don Gesualdo, Parte Seconda – capitolo I)

 La formica vive una sofferenza che pretende sia convissuta da tutti, tanto è insostenibile. Non accetta chi vuole di più, e tantomeno è disposta a tollerare chi si sottrae al perfido sistema che l’ha omologata. È dunque un problema di sistema, e non si creda che la formica esopica sia solo un personaggio di fantasia: le formiche allevano altri insetti per il loro fabbisogno, alcune specie predano i loro simili e catturano le larve per schiavizzarle, quando non se ne nutrono. Ed è facile tornare alla fantasia, immaginando la propaganda di alcuni formicai che accusano le formiche con una condotta diversa dalla loro di cibarsi dei cuccioli, o è comunque ragionevole presumere che alcune abbiano fatto propria un’aggressiva diffidenza nei confronti di formiche straniere con tanto di slogan: “Formicai chiusi, è finita la pacchia!” e via dicendo. Insomma: nell’antropomorfizzazione delle formiche, l’odio per le cicale è assolutamente plausibile. E dato che Esopo non ha approfondito la questione nell’ottica di un problema sociale, bisogna riscrivere la favola con piena cognizione di causa.

Durante una calda estate, la cicala suonava allegramente all’ombra delle foglie e, sotto i suoi occhi, le formiche lavoravano imperterrite per trasportare il cibo al formicaio. Probabilmente bestemmiavano per la fatica, chi lavorava meno veniva emarginata perché di pessimo esempio per la colonia, nessuna di loro poteva permettersi il risultato di quanto producesse, ogni tanto qualcuna si fratturava una zampa e la formica a capo delle operaie era sempre pronta a dichiarare che la sventurata non lavorava in quel formicaio; in parole povere, era un ridente formicaio all’insegna della civiltà. La cicala le invitava talvolta a concedersi una pausa per suonare insieme, senza rendersi conto nella sua ingenuità che il sistema delle formiche non prevedeva che suonassero, né che imparassero a farlo, né che imparassero qualsiasi cosa non inerente al ruolo assegnato. Nonostante il fastidio che desse al sistema del formicaio, non era possibile proibire le interazioni con la cicala: un divieto presume l’esistenza di un qualcosa da vietare e genera naturalmente dei trasgressori della norma; non prevederne l’interazione equivale invece a una presunzione d’inesistenza, annulla gli strumenti di trasgressione e garantisce un’incomprensione di fondo da parte della collettività. In passato, ogni tanto, qualche cicala era riuscita comunque a intavolare un discorso costruttivo con le formiche, al punto da suscitare un allarme per l’equilibrio del formicaio, ma certe situazioni venivano comodamente risolte col ritrovamento senza vita della cicala di turno, solitamente in luoghi caratteristici come una stanza d’albergo a Sanremo o l’idroscalo di Ostia. Erano casi sporadici, in un’epoca in cui la formica regina aveva provato a controllare le cicale conferendo premi in cibo a chi elogiasse il formicaio, ma si era presto rivelata una strategia fallimentare che aveva generato un circolo vizioso e parassitario in cui miriadi di cicale tentavano la fortuna in questo modo e, una volta raggiunta la considerazione delle operaie, rischiavano di diventare ingestibili e controproducenti. Non era questo il tempo, né il caso: questa cicala, come la maggior parte della categoria all’epoca della favola, era abituata all’incomprensione delle formiche e non riusciva a instaurarne una valida interazione. Tuttavia, nel formicaio iniziava a respirarsi un particolare clima di tensione: questa cicala era testarda, troppo, tutte ne parlavano, canzonandola o persino apprezzandone lo sforzo; fu così che la regina decise di correre ai ripari. Una di quelle sere d’estate organizzò una sorpresa alle operaie che tornavano stanche dal lavoro: un’esibizione di formiche proprio come loro, esenti dal lavoro di operaie in cambio di ingurgitare e vomitare le feci. Le operaie risero di gusto, si svagarono pur sottraendo del tempo al sonno, e già dal giorno dopo erano sufficientemente stanche per considerare meno la cicala. Incoraggiata dal risultato, la regina incrementò le esibizioni con prove canore orribili, ma facilmente replicabili da tutte le operaie, e comunicò che chiunque avrebbe potuto esimersi dal duro lavoro superando appositi provini per le future esibizioni; tanto bastò perché le operaie volessero ascoltare volutamente le esibizioni delle loro simili durante il lavoro, affinché potessero imparare a emularle più facilmente e potessero prepararsi per le future selezioni, sognando quello spiraglio di apparente felicità. Fu così che entro l’autunno la cicala finì inascoltata, oltre che incompresa, e alla prima brina la fame e il freddo erano problemi secondari in confronto alla disperazione, alla depressione e, sensazione ben più simile a quella delle formiche, alla frustrazione. Seguendo l’ordine della favola, la cicala bussò al formicaio per chiedere del cibo e gli fu negato ma, nonostante le ragioni adesso siano più chiare, in questo approfondimento non è possibile trarre un finale univoco.

Primo esempio di finale: la cicala partecipò ai provini insieme alle formiche, ma le dissero che il suo stile era superato, senza mercato o, addirittura, senza talento rispetto alla media.

Secondo esempio di finale: la cicala diede di matto, aggredì le formiche e venne soppressa in quanto individuo pericoloso.

Terzo esempio di finale: la cicala andò via dal formicaio e, di lì a poco, fu ritrovata ancora una volta all’ombra delle foglie, ma silente, con una corda al collo.

È vero, la cicala non ha un collo per impiccarsi, ma Federico sì.

Era un attore impegnato nel sociale, nello stesso periodo in cui il campione della recitazione sottovoce – vecchio trucco per non far trapelare l’incapacità di recitare – Luca Argentero spopolava in una serie televisiva di prima serata per sedersi sul pavimento di un ospedale, stanco o rattristato per l’ennesimo duro problema da risolvere, con uno stetoscopio al collo e possibilmente una maglietta attillata. Il paragone non deriva da un’antipatia particolare nei confronti di Argentero – poteva ad esempio trattarsi di Gabriel Garko quando non è diretto da Ozpetek – ma dalla stessa età che condivideva con Federico e, forse, era l’unica cosa che avevano in comune. Lavorava nel teatro, nei prodotti definiti “di nicchia”, aiutava i giovani con difficoltà nel dialogo e probabilmente credeva a un’idea di arte con un’utilità, ma che troppo spesso non riceve il riconoscimento dovuto. È stato ritrovato col suo peso sorretto da un albero, come un passero in fuga da un nido in un fosso.

Non è più necessario uccidere, se le condizioni inducono al suicidio. Quelle condizioni che privano persino del diritto alla tristezza, con una Mercoledì Addams interpretata da una bellezza canonica che vuole millantarsi un’emarginata sull’omonima serie Netflix firmata da Tim Burton. Non troppo distante da un Alessandro Preziosi che interpreta il Cyrano de Bergerac senza la protesi al naso: l’emblema della frustrazione e dell’emarginazione per sentirsi brutto, interpretato da un’icona della bellezza. Quelle condizioni in cui è facile illudersi che, al giorno d’oggi, non ci siano più i De Filippo, i Gassman, i Pasolini, i Germi o i De Sica: la formica li ha uccisi e continua a ucciderli.

Forse un domani cambieranno le cose, quando le cicale comprenderanno di non essere sole e di potersi coalizzare, ma non per rincorrere cavilli burocratici indispensabili alla sopravvivenza e che non appartengono al loro mondo, bensì per tornare a occuparsi di Arte: quella che risiede nella forza di chi la esercita, nella bellezza di chi la crea, nella sapienza di chi la riceve. L’Arte che serve.

 

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