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#contemporarstrike Giornata Mondiale del Rifugiato

Lo scorso sabato 20 giugno, #contemporarystrike, l’appuntamento di dirette live su instagram che Aurelia Nicolosi, curatrice della galleria Kōart/Unconventional  Place, porta avanti dal 25 aprile, si è spostato eccezionalmente sulle pagine fb per una diretta molto speciale, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato. La puntata, intitolata Arte e ricollocazione: stati di necessità, ha visto coinvolti in un dibattito molto intenso, suddiviso in quattro tempi, l’artista Francesco Di Giovanni, la sua curatrice Maria Chiara Wang e la scrittrice e poetessa Marilina Giaquinta.
La Giornata internazionale del rifugiato, indetta dalle Nazioni Unite, viene celebrata il 20 giugno per commemorare l’approvazione nel 1951 della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati (Convention Relating to the Status of Refugees) da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Da qui l’esigenza, la necessità, di raccontare la tematica della migrazione attraverso l’arte delle immagini e delle parola creatrici.
Francesco Di Giovanni (1991) vive e lavora tra l’Italia e la Polonia.
Maria Chiara Wang (1981), vive e lavora a Bologna.
Marilina Giaquinta vive e lavora a Catania.
Marilina durante la diretta ha introdotto le opere di Francesco di Giovanni attraverso una selezione di poesie (quattro poesie) tratte dalla raccolta inedita, intitolata  Il futuro è straniero.  Come afferma la stessa autrice, i versi sono tratti, per la maggior parte, da esperienze vissute durante i servizi di ordine pubblico e di accoglienza disposti in occasione dell’arrivo delle navi che avevano operato salvataggi di immigrati naufragati nelle acque al largo della Libia e che ha diretto come dirigente della Polizia di Stato. Le storie, pur partendo da personaggi veri, sono poi state da lei elaborate.
Ogni componimento è stato selezionato per la tematica trattata, che è andata a legarsi alle opere, fotografiche e performative, presentate da Francesco. Pertanto, la prima poesia che ha raccontato dell’accoglienza a notte fonda di un profugo, Abdulshalum, seduto in mezzo al Molo di Levante di Catania con «il volto intristito da solchi irti e duri» è stata accostata al progetto I invade You invade. Tale opera composita, pluripremiata, anche da Amnesty International, ha per protagonisti due uomini: Muhamed, di colore, in giacca e cravatta, che tiene in mano un palloncino colorato, e Simone, bianco, in canottiera, che tiene in mano un’antenna. Due aspirazioni contrapposte: il lavoro per il primo, il divano per il secondo. Desideri vivi dei migranti che giungono sui nostri territori per studiare, lavorare, e ottenere un riconoscimento sociale e culturale e desideri fatui, frutto di una società vuota e consumistica.
Il secondo intervento è introdotto dalla IV poesia della raccolta. Esso racconta di un parallelismo autobiografico tra madri e figlie: Marilina, che incontra una bambina di nome Jamila -in arabo ‘bella’-, «con la voglia di crescere senza guerra né male», avvolta da un manto nero e accompagnata dalla sua mamma. Donne che s’intendono con gesti e sguardi, donne che lottano e sopravvivono al dolore, alla violenza e che ritornano nel progetto The Tub di Francesco Di Giovanni dove «lo spettatore è invitato a distendersi in uno letto realizzato con pedane di legno, e poggia la testa in un giubbotto salvagente, osservando il monitor che si trova sopra di lui. Sulla sua sinistra un telefono, che una volta alzato permette al video di iniziare. Ci troviamo in fondo al mare; quella che vediamo è una barca e quella che sentiamo è la conversazione tra una donna in mare e un suo possibile soccorritore. Sono tanti in barca, compreso bambini. La donna chiede aiuto, la trasmissione è disturbata, riusciamo a capire che qualcosa non va, forse la barca sta affondando…Si continua a dialogare ma senza ottenere le coordinate esatte».
La terza parte si apre con il XIII componimento che raccoglie il racconto straziante della registrazione di bambini, giovani donne e uomini, in fin di vita, all’atto dello sbarco, disidratati, malnutriti, feriti, ammalati, violentati. A questo fa eco The Flag Relocation, un video, una performance, alcuni preziosi scatti, che vedono come protagonista una bambina africana, Sami, che avvolge la bandiera europea con un nastro adesivo su cui è scritta la parola ‘’fragile’’. Lascia fuori solo una stella, quella che simbolicamente rappresenta l’Italia e il cammino di speranza intrapreso verso l’inclusione nel nostro Paese. Il progetto attualmente è esposto a Taormina, presso la Chiesa del Carmine in seno alla mostra dal titolo GE/19 Boiling Projects – Da Guarene all’Etna, ovvero dal Piemonte alla Sicilia, un viaggio nella fotografia contemporanea italiana tra ricerca e sperimentazione, a cura di Filippo Maggia, voluta dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo in collaborazione con Fondazione OELLE.
A spiegare e commentare criticamente il legame tra i progetti di Francesco Di Giovanni e le poesie di Marilina Giaquinta, Maria Chiara Wang, che di Flag Relocation ha scritto il testo critico per il prestigioso catalogo della SKIRA:
«The Flag Relocation è l’ultimo capitolo della ricerca artistica di Francesco Di Giovanni
fondata sul tema della ricollocazione. Grazie alla metafora del trasloco, estesa negli anni
ad ambiti e a contesti differenti, l’artista si fa portavoce di una filosofia della migrazione
argomentata visivamente mediante la produzione di media eterogenei quali: performance,
fotografia, video e installazioni.
Il nastro ‘fragile’, con cui una giovane eritrea imballa la bandiera europea, è qui impiegato
per tenere assieme e per proteggere gli elementi che costituiscono una comunità talvolta
minata nella propria unità e stabilità. L’unica stella che rimane visibile rappresenta l’àncora
di salvezza a cui la piccola Sami si è aggrappata per cominciare una nuova vita».
Nella quarta e ultima parte, Marilina interviene leggendo l’XI poesia, intitolata C.A.R.A., dove racconta le emozioni e i ricordi di una notte di Natale trascorsa al Cara di Mineo, «con un caffè dentro la testa e il vuoto dentro lo stomaco”, a dare un nome a tutte quelle vite, giunte lì per ottenere accoglienza e asilo, alla ricerca di una nuova vita e di pace. Quest’ultima fondamentale per costruirsi una nuova ‘identità’, come è riuscito a fare Muhamed Sabally, l’amico di Francesco, arrivato dall’Africa e ormai stabilizzatosi nel nostro Paese. Un’Italia che accoglie, che abbraccia e che lotta. 365 giorni con Muhamed racconta proprio di questo, di un giovane che non dimentica le sue origini ma che vuole essere italiano, riconosciuto come tale in una terra dove vive e lavora con una ritrovata serenità, lontano dalle bombe.
Aurelia Nicolosi, dopo aver ringraziato e citato due importanti figure, che rappresentano la lotta degli emigranti contro il lavoro nero e il capolarato, Aboukabar Soumahoro, sindacalista, incatenato davanti Villa Pamphilj a Roma durante Gli Stati generali dell’Economia e Adnan Siddique, ucciso a Caltanissetta per aver denunciato lo stato di sfruttamento nelle campagne dell’entroterra siciliano, conclude citando l’evoluzionista Telmo Pievani: «Noi siamo una specie africana, recente, tra 200 e 300 mila anni fa, una specie sola, non divisa in razza. La razza non ha fondamento biologico, genetico: il nostro dna è africano, più del 99,9% è comune a tutti gli esseri umani. L’Homo sapiens è specie espansiva, pertanto, siamo tutti parenti e tutti differenti».

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