La sentenza di primo grado del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, con la quale i giudici guidati da Alfredo Montalto, condannarono pesantemente i generali Antonio Subranni e Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno, “è incongruente”. A scriverlo, nelle motivazioni della sentenza d’appello è il Presidente della Corte d’assise Angelo Pellino che non risparmia le critiche al collega di primo grado. In appello i tre ufficiali sono stati tutti assolti, così come l’ex senatore Marcello Dell’Utri, tutti accusati di minaccia a corpo politico dello Stato. Pellino parla di “varie incongruenze” della sentenza di primo grado.
“Anzitutto – scrivono i giudici d’appello – nel ragionamento dei giudici di primo grado sembra quasi che la cattura di Riina sia sopravvenuta come un evento accidentale, nel percorso della trattativa. E che il segnale rassicurante lanciato con la mancata perquisizione del covo di Riina servisse a confermare che nulla era cambiato, e che restava ferma la sollecitazione a coltivare un dialogo finalizzato a porre fine all’escalation della violenza mafiosa ripristinare un costume di rapporti ispirati a una pacifica coabitazione o almeno un tacito patto di non belligeranza tra Stato e mafia”.
“In realtà – dicono ancora in sentenza d’appello – la lettura offerta dalla sentenza non i conti con il dato conclamato che la cattura di Riina non era un accidente nel percorso della presunta trattativa, perché parallelamente allo sviluppo dei contatti con Ciancimino”, l’ex sindaco mafioso di Palermo, il generale Mario Mori e i suoi uomini “si preparavano e si attrezzavano per dare corso a una indagine sul territorio specificamente mirata a individuare e a catturare il capo di Cosa nostra”.
“E dimentica di considerare che la trattativa con Ciancimino, a sua volta, non aveva avuto uno svolgimento lineare, ma stando almeno alla narrazione dei tre protagonisti, aveva conosciuto a un certi punto una brusca interruzione e comunque una drastica svolta”.