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La delegittimazione culturale. Storia di un delitto politico

La cultura e l’arte sono strumenti del popolo, destinati ad esso e, insieme, costituiscono un’arma di prevenzione che ad-esso deve tornare

Girano su Tik Tok o, almeno, ci provano. È la nuova strategia della politica nel 2022, per usare un’iperbole lusinghiera, insieme a slogan ricattatori – o noi o il disastro impellente voluto dalla controparte, scegli – stampati su cartelloni e su mezzi pubblici che, per buona parte della penisola, è sufficiente osservarne il malfunzionamento per comprendere quanto sia distante l’idea della carica pubblica dalla gente. Una persecuzione quasi porta a porta e rivolta a tutti, sorretta sullo sdoganamento della contraddizione: vecchi che parlano di giovani, meno vecchi che sfruttano l’età media dei candidati per passare per giovani, privilegiati che si esprimono sugli svantaggiati e un forte manto centrista che offusca ogni plausibile concretezza nei programmi. L’unica coerenza di questo scenario è l’ignoranza: nessuno si esprime in merito alla cultura e all’arte e, quel che è peggio, nessuno sembra accorgersene.

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La televisione è un medium di massa, e come tale non può che mercificarci e alienarci.

Lo dichiarò Pier Paolo Pasolini nella trasmissione condotta da Enzo Biagi III B facciamo l’appello nel 1971, quattro anni prima la sua uccisione, ed è probabilmente la migliore sintesi della sua inquietante profezia sull’evoluzione fascista della società dei consumi e sugli effetti della televisione. Le prime avvisaglie più evidenti di quelle che potevano notarsi in un’Italia orgogliosa di sé, che con una mano benediva il pane in tavola la domenica e con l’altra massacrava un intellettuale all’idroscalo di Ostia, balzarono sui titoli dei giornali il 14 maggio 1985, quando Federico Fellini trascinò in tribunale Silvio Berlusconi per l’inserimento di spot pubblicitari all’interno dei suoi film. In quell’occasione, addirittura, il regista provocò l’imprenditore rampante:

Se riuscisse a ottenere in Parlamento un decreto che lo autorizza a interrompere processioni, parate militari, i discorsi degli stessi parlamentari e anche le funzioni religiose? Pensi: una messa e tre stop, una messa cantata e sette stop. Può sembrare sacrilego, ma non è altrettanto sacrilego interrompere l’opera di un artista?

 Fellini non ebbe mezzi termini, la definì una causa sballata, una prepotenza con una tracotanza inammissibile, un’aggressione, una violenza, un gesto di teppismo perpetrato da invasori, un’offesa alla dignità umana. Gli anni che seguirono furono il segno di un’evoluzione del metodo di controllo in Italia e, oggi, può essere affermato senza riserve: la strategia della tensione stava lasciando spazio a quella che Giorgio Gaber definì la dittatura degli imbecilli, con tanto di periodo di affiancamento e forse di prova, in cui il vecchio metodo e il nuovo operarono un accavallamento. In questo chiaroscuro nascono i mostri scrisse Antonio Gramsci nei suoi appunti durante la prigionia fascista e, forse, l’alternanza di bombe e televisione generalista all’insegna di una superficialità spacciata per leggerezza non ha saputo preparare una classe dirigente a contribuire e usufruire della libertà di Internet goduta nel ventennio successivo; si è formata così una generazione con radici salde, incredula e illusa nei confronti del presente, che oggi persiste a stringersi dentro un terreno che non esiste più. In sostanza, dal boom economico degli anni Sessanta del Novecento, la società italiana non si è più ripresa. Prodiga e arrogante, ha gongolato sull’elevazione a potenza mondiale capitalista nella contraddizione di confidare in un’eterna crescita e di non costruire nulla allo stesso tempo. Quam minimum credula postero, diceva Orazio, da buon figlio di liberto arricchito con l’attività di esattore; come la generazione dei figli di un benessere economico, il poeta latino ha ereditato da suo padre quella libertà che i suoi avi non hanno goduto e ha vissuto di rendita paterna, poi della mansione di segretario e, infine, sotto la protezione di Mecenate, nome non così distante da quello del segretario di Stato americano Marshall, promotore del Piano per la ripresa europea annunciato col motto: Whatever the weather we only reach welfare together. In un clima di riforme e mutazione dei costumi che ci ha condotto alla globalizzazione galoppante in qualche decennio, la responsabilità economica non può certo ricadere sul singolo cittadino di quell’epoca, ma la scarsa sensibilità culturale sì. E non è trascurabile l’enorme responsabilità dello snobismo intellettuale di sinistra, che ha favorito un sistema clientelare fondato sulla strumentalizzazione delle cause sociali, fino a ritrovarci oggi una sedicente sinistra più vicina a quella di Francesco Crispi che a quella di Enrico Berlinguer. Non è da meno la responsabilità della destra che, nel mescolare nostalgie fasciste e sotterfugi liberali, ha generato una tendenza populista che non era mai stata così in auge. In verità, come sosteneva Pasolini nei suoi articoli sull’analisi del cosiddetto fascismo dell’antifascismo, l’Italia non ha mai avuto un’indole conservatrice: eccezion fatta per i primi quindici anni del regno sabaudo improntati sull’eredità politica di Cavour e per i mandati del marchese di Rudinì negli anni Novanta dell’Ottocento, la destra italiana è riuscita a dominare la scena politica solo sfociando nella devianza fascista o mimetizzandosi in posizioni liberali che hanno caratterizzato il clima centrista della Repubblica dal suo sviluppo democristiano ad oggi, col pieno sostegno di una grande fetta della sinistra, che è la più moderata, pavida e – paradossalmente – conservatrice, travestita da progressista.

Senza sapere esattamente cosa vogliono, blaterano continuamente di futuro. […] Io parlo della locura! La locura, la pazzia, la cerveza! La tradizione o merda, come la chiami tu, ma con una bella spruzzata di pazzia. Il peggior conservatorismo che però si tinge di simpatia, di colore, di paillette! […] Sono cattolico, ma sono giovane e vitale perché mi divertono le minchiate il sabato sera, è vero o no? […] Questa è l’Italia del futuro: un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte. È questo, quello che devi fare tu! […] Pappardelle, tirate contro la droga e contro l’aborto, ma con una strana colorata luccicante frociaggine, smaliziata e allegra come una cazzo di lambada. È la locura, una cazzo di locura! Se l’acchiappi, hai vinto. (Boris – terza stagione, 2010)

La citazione è tratta da una delle serie televisive più originali, critiche e “profetiche” dello scenario culturale italiano e, com’è evidente, le sorti della cultura sono strettamente collegate a quelle della politica. Non c’è da stupirsi, dunque, se le professioni dell’arte e della cultura si muovano in un terreno normato a stento, assoggettate a un clima di costante insicurezza e incostanza, con una confusionaria organizzazione di bandi pubblici e una notevole difficoltà di autonomia aziendale; la burocrazia, che favorisce la corruzione e appesantisce la produzione di categoria, consente alla politica di fare il bello e il cattivo tempo. E questo sistema contorto e ambiguo, di cui fanno le spese gli addetti ai lavori e il pubblico ricettore, sollecita la stessa ignoranza che la sostiene. Sarebbe questa la democrazia?

Da notare come sia il fascismo che il centrismo siano nati dalle macerie di un conflitto mondiale e abbiano trovato sviluppo nel transito da un assetto popolare a uno più conservatore che raggiunge l’apice nella repressione autoritaria, sia essa una dittatura o una democrazia sorretta dalla strategia della tensione. La diversità sussiste nei tempi e nei modi, motivo per cui oggi il fascismo è un crimine e il centrismo ha monopolizzato il panorama politico fino a paralizzarlo, in un processo di delegittimazione culturale che ha consentito al popolo italiano la condanna di un sistema che conosceva fin troppo bene allo scoppio di Tangentopoli. Poi, pago dello sfogo ma terrorizzato per il futuro, non ha esitato ad acclamare un partito con un nome che somiglia più a un’esaltazione calcistica che a uno schieramento politico: Forza Italia.

Se nei primi anni della Seconda Repubblica hanno resistito alcuni segnali di posizione nei nomi dei partiti, come ad esempio Alleanza Nazionale, ben presto la denominazione generica del partito di Silvio Berlusconi è stata emulata da buona parte di questi: Italia dei Valori, Partito Democratico, Fratelli d’Italia, fino a un’insensata Lega, priva di alcun aggettivo che la definisca. Non è da sottovalutare neanche la mutazione del significato denominativo del Movimento Cinque Stelle che, da Acqua, Ambiente, Trasporti, Sviluppo ed Energia, è stata sostituita quest’ultima stella con Connettività e, infine, sono state trasformate in Beni comuni, Ecologia integrale, Giustizia sociale, Innovazione tecnologica ed Economia eco-sociale di mercato. La genericità di una denominazione impoverisce inevitabilmente il simbolo e la cultura che rappresenta, fattore che ha consentito una trasformazione da libera associazione di cittadini con una palese repellenza al sistema partitico a un vero e proprio partito di maggioranza.

Bisogna scendere alla portata di tutti, bisogna adeguarsi! Un’adeguatina oggi e un’adeguatina domani, l’uomo di qualità ci prende gusto. Tac! Un’abbassatina. Poi ce n’è un altro che si abbassa più di lui e… tac, tac, un’altra abbassatina! Ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta. (Giorgio Gaber, La democrazia, da Gaber 1996/97)

Malgrado la sfiducia nei partiti, la necessità del popolo italiano di parteggiare è diventata man mano spasmodica. Il senso di appartenenza, la ricerca subconscia di una stabilità ormai inesistente e l’illusione di un cambiamento a buon mercato sono tutti elementi cardine di questa tendenza, alimentata maggiormente da due motivi consequenziali: la percezione di decadenza e l’isteria di massa. Privato di retaggi autoritari e in movimento per una liberalizzazione generale, il popolo non ha avuto il tempo di formarsi per percepire i primi segnali di privazione culturale operata col ricatto morale del benessere, che nel capitalismo si ottiene con la depredazione diretta o indiretta di realtà diverse dalla propria e pertanto non può tollerare la sensibilità, poi con la frenesia del lavoro e la minaccia di una costante crisi, che demotiva investimenti e favorisce speculazioni. La percezione di decadenza si è così insinuata gradualmente, fino alla piena consapevolezza di un sensibile peggioramento della conduzione e delle prospettive di vita rispetto al passato, in un’epoca in fermento per la globalizzazione galoppante e per il conferimento di un potere sconfinato come quello conferito da Internet, ma di cui anche stavolta è venuta meno un’adeguata formazione. L’isteria è un’ovvia conseguenza degenerativa, che non si limita certo a imprecare dietro la tastiera di un computer o un cellulare, ma a compiere azioni senza un’approfondita valutazione determinata dal buonsenso. Così, in un effetto che sembra coinvolga buona parte del mondo occidentale, nascono i negazionisti, i nostalgici delle dittature e i complottisti, ma anche i fanatici giustizialisti, i salutisti ipocondriaci e i ciechi ricettori del panorama mediatico maggioritario. L’ossessivo perseguimento di un centrismo ha dato vita a nuove forme di estremismo, più subdole e paradossalmente più cieche delle precedenti: gli aderenti non riconoscono di essere estremisti perché non hanno gli strumenti per riconoscere l’esistenza di un’altra posizione a loro contrapposta ma ugualmente valida, non sanno scindere il concetto dello scontro dall’idea in loro instillata di una supremazia innata e dovuta, come una fede, da cui prende piede la censura come arma in sostituzione del confronto. Il nemico non è più un avversario, ma una minaccia di connotazione universale da estinguere con ogni mezzo; parafrasando Nietzsche, abbiamo ucciso un dio per crearne di nuovi, di gran lunga più deboli e che quindi richiedono una difesa più strenua, alimentata dal terrore di vederli crollare da un momento all’altro e, soprattutto, prima di riuscire a individuare una nuova fede a cui aggrapparci per sentirci nel giusto.

Non è un caso che nella Chiesa Cattolica, se già da tempo è avvenuto il collasso spirituale per il perseguimento di un progresso che non le appartiene, è in corso quello umano per la sua inadeguatezza ed è probabilmente prossimo quello materiale per la sua inutilità; e l’artefice di questo avvenimento epocale è proprio la condotta populista, del tutto in linea con quella dei partiti italiani. È la trascuratezza della cultura a provocare l’inutilità, perché la cultura non è solo un bene comune, ma una risorsa essenziale e concreta fondata sulla libera espressione di volontà del singolo, che non può essere soggetta a logiche di mercato che nel tempo hanno costruito intorno alla popolazione una gabbia non dorata, ma placcata d’oro, il cui colore man mano sta venendo via per lasciare spazio a rugginosi meccanismi clientelari, malcelati da una patina di arroganza.

Dall’altro lato, mentre l’esaltazione dell’aridità culturale ha creato un deserto incapace di produrre persino miraggi credibili, gli intellettuali e gli artisti del Paese si sono dati all’eremitaggio in oasi esclusive, dove si abbeverano in sorgenti di Lete e si cibano di loto. È così chiaro che i sopravvissuti di questa categoria siano divorati da snobismo, retorica e rassegnazione, che nessuno di loro mostra sensi di colpa e, anzi, buona parte di essi è talmente assuefatto da rivendicare sedicenti grandi e irripetibili imprese culturali compiute in passato, un ottimo alibi per non cedere il passo alle nuove generazioni salvo rari casi, ossia quando i giovani sono sufficientemente allineati alla loro schiera.

No, ma quale bando? Lei non capisce. […] Noi, come Teatro di Roma, vogliamo eliminare adesso questa possibilità per lavorare fra di noi, ossia fra persone che si conoscono da sempre, che si fidano l’uno dell’altro. Insomma, lavorare fra pochi amici fidati. Chiaro? (Boris – terza stagione, 2010)

Non sono più così diversi da chi combattevano, sono solo più ingenui, viziati e incompetenti. Hanno in comune, ad esempio, l’additare i giovani come capro espiatorio, stessa sorte che tocca ad ogni altra minoranza: sì, perché i cittadini tra i venti e i quarant’anni sono circa undici milioni in Italia, a malapena un sesto della popolazione. E nella logica di mercato, così invischiata nella politica, fare proposte per ottenere i voti di una singola minoranza non giova a nessun partito.

Cosa resta da fare a chi ha lucrato senza scrupoli su questo modello di società, ormai che è evidente la sua colpa? Puntare il dito contro le minoranze – compresi i giovani, come già detto – e ringhiare, sbraitare, esasperare nel vittimismo, negare l’evidenza e, anzi, trasformare la contraddizione in abitudine. Ed ecco dunque i politici su Tik Tok che provano a mostrarsi giovani, seguendo un’illogica massificazione degli strumenti di comunicazione, incapaci di formulare nuove idee e soprattutto di interessarsi ai reali problemi del territorio, fieri del ridicolo di cui si coprono e ignari che, presto o tardi, questa loro incoscienza ingorda, individualista e irrefrenabile, non potrà che spazzarli via; ma non hanno sufficiente cultura per comprenderlo e sono troppo distanti dal popolo per acculturarsi. Perché, se il popolo fosse realmente ignorante come i fenomeni di tendenza vorrebbero, questi ultimi non avrebbero bisogno di ribadirlo ad ogni occasione utile. Il popolo non è ignorante e non può esserlo per sua stessa natura, perché la cultura risiede nella sua anima e questa è tutelata dall’arte. Per questo la cultura e l’arte stanno subendo un processo di delegittimazione: il popolo non è ignorante, ma si vorrebbe renderlo tale. È sotto attacco costante della confusione e della superficialità, vive nella minaccia di una massificazione indistinta con la complicità della burocrazia e l’omertà degli snobismi accademici da salotto affinché diventi massa; e la massa sì, che è ignorante. Se la classe politica crede veramente che il popolo sia una massa di pigri e impauriti che pascola sui social network per ostentare le frustrazioni personali e quotidiane, la cui unica ribellione consisterebbe nel pubblicare frasi fatte con fonti sbagliate e mutevoli, o che le nuove generazioni siano costituite da giovani invertebrati che “non hanno voglia di lavorare”, il risultato della delegittimazione culturale è più profondo di quanto analizzato finora in questo articolo; perché, se così fosse, significherebbe che l’attuale classe dirigente mente inconsapevolmente e credendo alle stesse menzogne che propina all’opinione pubblica. In parole povere, sarebbe caduta nel suo stesso tentativo di rincretinire il popolo.

Se vincono troppo quelli di là, viene fuori una dittatura di sinistra. Se vincono troppo quegli altri, viene fuori una dittatura di destra. Una dittatura di centro, invece? Quella gli va bene. Auguri!(Giorgio Gaber, La democrazia, da Gaber 1996/97)

A prescindere da questo, tra frasi fatte sui social network e guru motivazionali provenienti dal pianeta Antani, tra ignoranti che spacciano l’odio per scontro dialettico e, adesso, politici che aspirano a diventare influenzatori mediatici, la cultura è sempre viva e vivrà fino agli ultimi giorni dell’essere umano. È sopravvissuta alla dittatura fascista e a quella degli imbecilli, agli snobisti e agli ignoranti, e sopravvivrà anche a questa delegittimazione orchestrata dall’incoscienza che mantiene così separata la gente e la politica. Lenta a esporsi ma inesorabile una volta innescata, si auspica che possa vibrare nelle corde che più le appartengono: l’anima del popolo, a cui non permette condizioni innaturali come la frenesia, la competitività o altre forme di malessere, ripudia l’indottrinamento dei tempi stretti e di un consenso riscontrabile solo in superficie, non teme la disapprovazione e non rifugge la consapevolezza di avere a che fare con un proprio simile in sede di confronto.

La cultura e l’arte sono strumenti del popolo, destinati ad esso e, insieme, costituiscono un’arma di prevenzione che ad-esso deve tornare.

 

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