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“Ora Romeo, a ittari sangu”

CATANIA – L’intelligenza, la creatività l’uso del siciliano in maniera forte e possente fa di “Romeo Q Giulietta” un’opera corale di grande raffinatezza che va dritta verso il cuore. Francesca Ferro regista ed adattatrice del testo sapientemente traslato da Alessio Patti ambienta il dramma in una Catania verace, autentica, “zaurda”, (per i nordici zotica) dove di zotico ci possono essere i modi e i vizi e le virtù eloquenti, ma i sentimenti sono sempre gli stessi e sfido chiunque al non aver mai sentito veramente le faide delle famiglie “arripuddute” (per i nordici parvenue o arricchite) o di quelle che nascono signorili, che poi quando sono incazzate non si comportano tali e quali come le famiglie di lavandaie e  di pescivendoli? Con tutto il rispetto per entrambi i ceti sociali, quelli autentici.

 

Sono d’accordo con Francesca Ferro: Shakespeare probabilmente era così! Popolano, folcloristico, zaurdo, ma con un animo trenmendamente da poeta. E da tutti si doveva far capire. Nobili e meno nobili.

Quindi metafore a bizzeffe come quella del meraviglioso Mercuzio (magistralmente interpretato da un allucinato dandy afflitto da paradisi artificiali, l’affascinante Mario Opinato) un dandy antesignano così glamour si poteva avere solo da strafatti di droghe dell’epoca: pare che “i funghi” si trovassero naturalmente sulle querce inglesi; il frate Lorenzo (Pasquale Platania), che a cavallo di un motorino elettrico diventava spacciatore, degli stessi “funghi” strappati operosamente alla corteccia quercifera e fatalmente distribuiti;  la balia trasgressivamente rappresentata (si sa gli attori dell’epoca erano tutti maschi) da un leggiadro e farfalloso Fabio Costanzo; la zaurdaggine della pelliccia di rinascimentale decadenza e la “catenazza d’oro” di Tebaldo, abilmente interpretato da Francesco Maria Attardi; la meravigliosa “padrina” la principessa, una spettacolare Guia Jelo, violenta, ironica e sagace come una donna di potere sa e può essere.

 

Shakespeare sintetizza tutto il suo lavoro, compreso l’alterazione di coscienza provocata dai “muschi” e dai “funghi” in questione, utili a volte per stimolare sentimenti altrimenti repressi, in queste poche righe pronunciate da frate Lorenzo:

“Sotto la tenera buccia di questo fragile fiore, risiede nello stesso tempo un veleno e una virtù medica; poiché se tu l’odori, risveglia in te una gioconda eccitazione di tutto il senso; se tu lo gusti, ti uccide, insieme col cuore, tutti i sensi. Anche nell’animo dell’uomo, come nelle erbe, stanno accampati, in continua guerra fra di loro, due re nemici: la grazia e la volontà brutale; e la pianta dove la peggiore di queste due potenze trionfa, è divorata dal verme della morte”.

Che queste parole dette in siciliano “sanno pure più belle”.

“Qui e ora” è tutta intera racchiusa la tragedia di cui stiamo parlando.

Chi ha avuto il coraggio e la forza di scendere nei propri inferi?

Chi una volta disceso nelle buie caverne della propria anima, ha incontrato il mostro che tutto divora famelico?

Chi ha saputo dire “io sono pure quello”?

 

Parte proprio dalla presa d’atto del proprio male, del proprio “veleno”, a volte “fungo” allucinogeno disvelatore, la volontà di combattere e di incatenare tale orrendo animale odioso. Lo psicologo Buber diceva: “bisogna uccidere i genitori in vita, per poter vivere la propria vita di figli in maniera autonoma e “sviscerale”, fuori dagli schemi da “loro” preordinati”.

Chi non ha preso coscienza del proprio lato oscuro, è semplicemente un illuso: quell’affermazione che dà il titolo all’affermazione “Ora Romeo a ittari sangu” (deve “buttare sangue” e quindi deve “morire”) per aver ucciso, resterà emblematica fino alla fine, quando sì, morirà Romeo, ma per amore della sua adorata Giulietta che crede a sua volta morta. E Giulietta morirà perché vede morto il suo Romeo.

E le famiglie rivali faranno pace perché non c’è più un motivo per fare guerra. E il pubblico assiso ancora una volta avrà fatto un’esperienza catartica autentica e vera, che questo è il teatro, entrare in un’altra dimensione dove avviene e continua ad avvenire la tragedia. Con noi spettatori compresi.

Lo sapevate che l’energia quantica, quella dell’Universo, e quindi di ogni manifestazione che esiste, compreso noi stessi, esiste, perché noi la osserviamo?

Quello è successo! Perché si sentiva dagli applausi e dal fatto che tutti ci siamo alzati in piedi in segno di rispetto all’onniscienza della rivelazione.

 

Cosa magnificare poi della regista? La scelta dei ruoli, le physique du rôle dei personaggi e l’atmosfera ricreata della festa in maschera con un rapper che simula la musica orchestrata solo da un muscolo umano: mirabile la simbiosi tra i movimenti e la tipica zaurdaggine shekspiriana dell’incontro tra due zaurdi di quartiere: la nostra bella e verace Giulietta (Maria Chiara Pappalardo) piccola protofemminista ribelle e un ingenuo impulsivo romanticamente involuto riccioluto Romeo (Giovanni Maugeri). Felicissima la scelta di vederli in mutande nel massimo della loro furia post-erotica, vaganti nella cosiddetta posizione conoscitiva massima dello statu nascenti dell’innamoramento/arrapamento considerando la foia di una ormonale e rivoluzionaria adolescenza.

 

Tutti i protagonisti in scena, interpretati da un cast di eccellenti attori siciliani composto da Giovanni Arezzo, Verdiana Barbagallo, Dany Break, Domenico Gennaro, Mansour Gueye, Loredana Marino, Teresa Spina e Renny Zapato. E gli allievi della Accademia Cams Studio. Le musiche di Massimiliano Pace, i costumi di Giusi Gizzo. Le foto sono di Gianluigi Primaverile e di Dino Stornello.

Ma la regina del palcoscenico è ed è rimasta nelle mie impressioni e nel mio cuore Guia Jelo: perfetta, nei costumi, nei modi, nella voce, nei trastulli, nell’emozione e  nel sentirla dichiarare “la fine dei conflitti tribali” in una regale e piangente discendenza, all’ultima replica, dalle favolose scenografie, sobriamente strutturate da ponti semovibili situati da improbabili e acrobatici costrittori.

 

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