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Performing art(ist), Marina Abramovich, The Cleaner

Firenze –  Palazzo Strozzi. Pianeta Abramovich. Entri a Palazzo e la prima cosa che vedi è il furgone Citroen di Marina e Ulay – la regione temporale che custodisce l’Erlebnisse – il vissuto – del Liebe – il loro amore assoluto e finito – (non si sa veramente), e del Leben, la vita. Leben e Liebe, vita e amore vero costituiscono la narrazione di un copione che raramente un’artista non deve raccontare nella sua opera. In Marina poiché l’opera è sé stessa e l’espansione del proprio centro, vita e amore e opera vi scorrono attraverso e ti attraversano, ma non per possederti, bensì per restituirti in qualche modo al tuo centro.

La retrospettiva della Abramovich, The Cleaner, aperta fino al 20 gennaio 2019 costituisce un complesso e sinergico percorso sulla ma soprattutto dentro e fuori la sua opera. Impegnati nella retrospettiva sono dei performer che non replicano le opere realizzate dall’Artista, ma dico: re-incarnano in sé stessi quello che Marina fece. La retrospettiva parte dalla sua prima produzione pittorica per poi farti affrontare Imponderabilia del 1977, con due performer nudi/e collocati agli stipiti di una porta perché tu ci possa passare in mezzo. Ci sono poi i set delle sue performance più estreme come Thomas Lips del 1975 o Balkan Baroque del 1997, in cui le tracce delle performance, nelle “reliquie” di oggetti e strutture utilizzate, costituiscono la memoria di una narrazione artistica del corpo e della mente di Marina che coincide con lo sguardo e il passaggio del visitatore – che questi vi abbia assistito a suo tempo oppure no. Quindi video delle performance e insomma l’intera vita artistica di Marina rivissuta dai suoi performer che con lei hanno svolto workshop ascetici che ripetono le esperienze estreme degli antichi cenobiti del deserto, degli yoghin o degli sciamani australiani, immersi e reintegrati al loro corpo attraverso l’ostile e minaccioso amore che gli elementi naturali, il lago, la foresta, la montagna, il fuoco, il freddo e il caldo custodiscono e donano al corpo e alla mente degli esseri umani.

Ovvio che qui l’Arte si trascenda in una dimensione spirituale, in una ricerca dell’assoluto, in cui il Corpo non diventa altro che pura forza controllata da un Pensiero in cui eros, spazio e tempo, vita e morte, natura e artificio, “io” e “tu”, sembrano presocraticamente, per così dire, riarticolati, rivissuti, senza mediazioni. Ecco, vien da dire che la Abramovich, filosoficamente parlando abbia scovato una sorta di entusiasmante estetica presocratica, che come un Anassimene, un Eraclito, un Empedocle taumaturgo, un Anassagora abbia ricercato e trovato nell’oscura luce della propria interiorità, l’interiorità stessa della Natura divina del Tutto, intendendo quel “divina” come il sovrabbondante  Arché di imprevedibile e passionale generosa minaccia che non è né bene né male, ma semplicemente è.

Ma ogni interpretazione ha i limiti dell’interprete e quel che resta è l’imponderabile percorso che la retrospettiva The Cleaner consegna al pubblico, il quale è inevitabilmente chiamato in ognuno dei suoi componenti, a ricordarsi che l’Anima non è dentro il cervello, ma ovunque, come lo è il Corpo.
Le foto sono di Giuseppe Carbone

 

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