Home Cultura La “vite maritata”: breve storia e psicologia di una specie vegetale intelligente

La “vite maritata”: breve storia e psicologia di una specie vegetale intelligente

“Così la vite è come “sposata” all’albero a cui s’avvinghia”. Daniël Heinsius

I primi in Italia a coltivare la vite partendo dalle varietà selvatiche sono stati gli Etruschi. Pianta che conoscevano nel loro ambiente naturale,  di cui raccoglievano i frutti nei boschi, come le bacche selvatiche. La vite selvatica, Vitis vinifera sylvestris, era una specie autoctona dell’area mediterranea e in Italia già trovava le sue condizioni ideali. Attualmente è possibile trovare viti selvatiche nei boschi italiani, pur facendo attenzione a distinguerle da viti coltivate di vecchi vigneti abbandonati, che poi si sono inselvatichite. Infatti le varietà coltivate derivano dalla vite selvatica, che è stata modificata con millenni di selezioni ed incroci. Gli Etruschi coltivavano la vite fin dall’età del Bronzo, almeno dal XII sec. a.C. Con lo sviluppo della civiltà, gli Etruschi ebbero contatti con i popoli del Mediterraneo orientale, dove cultura e tecniche viticole erano già più conosciute. Così affinarono le tecniche produttive, e importarono nuovi vitigni di origine orientale, dove la domesticazione era iniziata  nell’area del Caucaso. Così i nuovi vitigni vennero coltivati e incrociati con le varietà locali. Come viene praticata la coltura della vite maritata? La vite è un arbusto rampicante, come una liana, per cui tende ad arrampicarsi su un albero ed essendo eliofila, cioè amante della luce solare, cerca di raggiungere il più possibile i suoi benefici raggi. Ma la sua bellissima prerogativa è che non essendo una specie parassita, non influisce sulla crescita dell’albero a cui s’aggrappa. Magari succedesse così tra gli esseri umani che hanno bisogno gli uni degli altri: il termine “maritata” però lo dobbiamo ai Romani antichi. Le viti erano allevate su soprattutto su aceri campestri, ma anche pioppi, olmi, ulivi ed alberi da frutto. Con i romani comparve però l’esigenza di distinguere due forme diverse di coltivazione. “L’arbustum” indicava la vite maritata. “Vinea” invece indicava la nuova coltivazione a vite bassa. Entrambe appartenevano alla categoria generale del vinetum (vigneto). Quando nell’Ottocento la viticoltura diventò una scienza, vennero scritti diversi trattati agrari che descrivevano nel dettaglio i sistemi tradizionali italiani. La viticoltura italiana ottocentesca nel centro-nord, era rimasta ancora di base quella dell’arbustum italicum (alberata) e dell’abustum gallicum (piantata) dell’antica Roma. Da questi due tipologie archetipali, si differenziarono una molteplicità di sistemi diversi. Si usa spesso il termine “alberata” per indicare sia l’uno che l’altro sistema. Gli alberi proteggevano in parte le viti da brina e grandine e fra gli alberi si potevano coltivare altre specie agricole .É chiaro che questi vantaggi appartengano ad un’agricoltura promiscua, ad un mondo contadino che nel Novecento era ormai al tramonto. Il secondo dopoguerra assistette ad una profonda trasformazione del mondo contadino italiano. Infatti la realtà produttiva moderna richiedeva ormai una viticoltura altamente specializzata. In questo nuovo mondo la vite maritata, sopravvissuta per oltre tremila anni, non trovò più posto. Approfondiremo questo e altri argomenti con storie avvincenti basate su studi e scoperte personali, chi scrive oltre ad essere psicologa, filosofa e teologa, è un’esperta di Miti e Culture del Mediterraneo. Troverete questi approfondimenti sul nostro magazine leculture.it e in eventi dedicati alla storia e ai miti sulla vite e le sue estrinsecazioni.

 

Exit mobile version