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Tiziana Ferrario: “Basta fili spinati, l’Ue deve essere un esempio per favorire la stabilità nel Medioriente”

Il messaggio lo ha lanciato ieri la giornalista e inviata di guerra del Tg1 Tiziana Ferrario nel corso della presentazione del libro “La principessa afghana” al Monastero dei Benedettini

CATANIA – «L’Unione Europea non deve erigere fili spinati per bloccare le migrazioni, il filo spinato rappresenta una debolezza. L’Ue deve essere un esempio per aiutare il popolo afghano e soprattutto per favorire la stabilità nel Medioriente. Garantire la stabilità nel Medioriente significa anche risolvere in buona parte la questione delle migrazioni. Al tempo stesso i paesi dell’Ue devono favorire l’integrazione dei migranti nel nostro territorio. È piuttosto strano che nonostante la presenza di migliaia di migranti in Italia le imprese lamentino la mancanza di personale». È il messaggio che la giornalista e inviata di guerra del Tg1 Tiziana Ferrario ha lanciato ieri durante la presentazione del suo libro “La principessa afghana e il giardino delle giovani ribelli” al Monastero dei Benedettini.
Un libro da cui emerge con forza il tema che sta particolarmente a cuore alla giornalista: la difesa dei diritti delle donne. «Una resistenza sotterranea, quella delle donne afghane, che lottano per i loro diritti – ha raccontato -. Diritti con cui i talebani devono fare i conti. Una resistenza “sostenuta” anche dalla parte conservatrice del popolo afgano».
«Il libro si ispira alla storia vera di Homaira, la principessa in esilio a Roma, nipote dell’ultimo sovrano afghano, Re Zahir Shah, che ha governato il Paese per quarant’anni, dal 1933 al 1973, prima di essere spodestato con un colpo di stato – ha raccontato nel corso della conversazione con le docenti Adriana Di Stefano e Stefania Panebianco dell’Università di Catania – Una principessa che ho conosciuto personalmente e che con coraggio, dietro le quinte, ha lavorato per riportare la pace nel suo paese e in questo “giardino” incontra tante giovani donne afghana che vogliono essere libere e per questo sono pericolose e vittime della violenza degli integralisti. Homaira non è una principessa bionda e ricca arrivata in Italia per fare shopping come accade ad altre provenienti dai paesi mediorientali, è una principessa che ha perso tutto. È molto simile alle tante donne migranti che arrivano nel nostro paese e hanno bisogno di ricostruire la propria vita. E soprattutto, quando ha potuto, è ritornata nel suo paese perché come tutti gli afghani vogliono ritornare nella loro terra. Non a caso mai nessun invasore è riuscito a sottomettere il popolo afghano, nessuno è mai riuscito a conquistare la Tomba degli Imperi. In agosto li abbiamo visti scappare in modo drammatico sugli aerei perché avevano aiutato noi occidentali presenti in Afghanistan e avevano paura di essere uccisi dagli integralisti».

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«Adesso occorre evitare che l’Afghanistan diventi un territorio dei terroristi – spiega l’inviata di guerra, introdotta in apertura dell’incontro dal prof. Rosario Castelli, delegato alla Comunicazione dell’ateneo catanese -. Quando andata per la prima volta a Kabul nel 2002 ho visto milioni di afghani rientrate nel loro paese dai campi profughi dell’Iran e del Pakistan. Erano scappati dai talebani. In questi ultimi 20 anni di presenza del contingente internazionale, tra cui anche le forze italiane, sono stati commessi tanti errori, adesso occorre una riflessione sulle scelte sbagliate. In questi 20 anni le donne hanno potuto immaginare un futuro, seguire dei sogni e avere diritti. Il ritorno dei talebani ha portato alla chiusura delle scuole femminili dai 12 anni in su, una tragedia per loro. Dobbiamo aiutare la popolazione afghana perché stiamo assistendo a una grave crisi umanitaria e economica anche perchè non vi sono più i finanziamenti internazionali proprio per evitare che finiscano nelle mani dei talebani. Le donne che perdono diritti rappresentano una sconfitta anche per gli uomini perché si ritrovano al loro fianco persone insoddisfatte, senza lavoro, senza diritti. Occorre trovare una soluzione per il popolo afghano e anche per i talebani che sono stati comunque degli interlocutori».

Un tema su cui la giornalista Tiziana Ferrario si è soffermata a fondo evidenziando che «il ritiro del contingente internazionale è frutto di un accordo del febbraio del 2020 tra il presidente americano Trump e i talebani, a cui Biden ha dato seguito». «Un accordo ben preciso, basta guerra, basta morti, a cui nessuno ha opposto resistenza ai talebani, legato principalmente a interessi economici: abbattimento delle spese militari e delle risorse umane per gli Stati Uniti e anche per andare incontro all’opinione pubblica – ha aggiunto -. Ricordo che i 20 anni di presenza in Afghanistan sono costati anche in termini di vite umane: 2500 soldati americani, 54 italiani e 1500 civili. Gli americani erano in guerra contro i terroristi per via dell’attacco alle Torri gemelle, mentre l’Italia e gli altri paesi si occupavano della ricostruzione del Paese».
E, ovviamente, non mancano anche gli interessi dei paesi limitrofi all’Afghanistan come ha sottolineato la giornalista. «Il ritiro delle truppe internazionali è stato accolto positivamente dalla Cina intenzionata a ripristinare la Via della Seta e quindi investirà in infrastrutture anche per sfruttare risorse come i minerali presenti nel territorio – ha spiegato -. L’Iran potrà rimandare in quel territorio gli oltre 3,5 milioni di profughi afghani; la Russia, e ricordo i dieci anni di guerra negli anni ’80 per conquistare l’Afghanistan, vorrebbe adesso un paese stabile, così come il Pakistan, per avere rapporti. Gli unici che vogliono un paese instabile, per mantenere vivo il terrorismo, è l’Isis».

 

In chiusura Tiziana Ferrario ha affrontato – rispondendo alle numerose domande di studenti e docenti – anche sul tema della libertà di stampa in Afghanistan e sulla crisi dell’editoria in Italia.
«I talebani la prima cosa che hanno fatto quando sono andati al potere negli anni ’90 è stato quello di chiudere la televisione di Stato e ritirare tutti i televisori dalle case degli afghani – ha raccontato -. Nel 2001, quando il regime è caduto, è stata riaperta la tv pubblica e ho intervistato la prima giornalista conduttrice del notiziario che rappresentava la ripartenza. In pochi avevano la televisione in casa, ma il notiziario era un gesto rivoluzionario. Sono state aperte nuove emittenti televisive e radio, c’è stato un fiorire di donne giornaliste che riuscivano a parlare di diritti delle donne a tutta la popolazione, anche le donne dei villaggi più sperduti visto che il territorio afghano è piuttosto impervio. Per questo le giornaliste sono state bersaglio degli integralisti, molte sono state uccise».
«Adesso, con l’arrivo dei talebani tanti giornalisti sono scappati perché si sentono in pericolo – ha spiegato -. È molto difficile fare i giornalisti lì oggi, è un mestiere rischioso, perché devi stare attento alle notizie che diffondi. I talebani non volevano che venissero fornite informazioni sulle loro perdite ad esempio. Al tempo stesso i talebani oggi concedono facilmente i visti ai giornalisti stranieri perché vogliono far vedere la faccia buona di questo paese e per certi aspetti è importante che le luci rimangano accese sull’Afghanistan».

Una professione, quella dell’inviato di guerra, a rischio anche per la crisi dell’editoria. «Gli inviati di guerra continueranno ad esserci anche se l’editoria sta attraversando un periodo difficile – ha precisato la corrispondente del Tg1 -.  La crisi dei giornali è molto forte, svolgere la professione del giornalista adesso è un po’ difficile anche per l’avvento dei social e purtroppo delle fakenews finalizzate più che altro a incrementare il “traffico” e quindi a fare soldi. Occorrono, invece, maggiori investimenti degli editori e giornalisti più preparati proprio per verificare le news. Tutto ciò consentirebbe anche un ritorno in termini di abbonamenti per le testate giornalistiche».
E, infine, rivolgendosi agli studenti e ai futuri giornalisti: «Occorre svolgere questa professione con passione rincorrendo sempre la verità, verificando sempre le fonti. E la pluralità delle “voci” è indispensabile proprio per garantire la verità delle notizie».

 

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