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Prometeo, il “gigante buono” che si sacrifica per un ideale

CATANIA – Debutto strabiliante di Prometheus, all’Amenanos Festival, il mito così come ce l’ha raccontato Eschilo e la traduzione particolarmente fedele di Daniele Salvo ma senza inutili fronzoli, per una produzione di Michele Di Dio dell’Associazione Culturale Dide con la compartecipazione di Fahrenheit 451 Teatro. Gli applausi per il Titano Prometeo Alessandro Albertin sono stati fragorosi sin da quando nel suo monologo, legato in catene da Zeus racconta del suo amore e del suo legame per le creature da lui stesso forgiate dal fango: gli esseri umani. Dramma centrale di una trilogia che doveva iniziare con il Prometeo portatore del fuoco e si concludeva con il Prometeo liberato, molti studiosi pensano che probabilmente sia stata scritta e rappresentata dopo il soggiorno di Eschilo in Sicilia. Si tratta dell’unica tragedia in cui compaiono solo divinità, ambientata in Scizia, dove Kratos e Bia, servi di Zeus, stanno incatenando ad una roccia il titano Prometeo. Dell’intera trilogia di Eschilo dedicata a Prometeo, il Titano buono, qui se ne vede solo una parte, quella del Prometeo incatenato ad una roccia ai confini della Terra per volere di Zeus che avendo già spodestato il padre Crono con una violenta guerra, si insedia al potere e annienta i suoi oppositori. Tra questi lo stesso Prometeo, prima complice e successivamente nemico proprio per aver donato il fuoco, la scintilla (l’intelligenza) agli uomini, dopo averla rubata proprio allo stesso Zeus. In buona sostanza il monologo toccante di Albertin rivolto alle oceanine così come scritto da Eschilo cita: “Non per disdegno o per superbia io taccio, non lo crediate; ma l’obbrobrio inflittomi veggo, e di conscia doglia il cuor mi struggo. Pure, i lor pregi a questi nuovi Numi, chi compartiva, se non io? Niun altri! Ma di questo non parlo: a voi direi cose ben note. Ma i cordogli udite che patiano i mortali, e come io seppi da stolti ch’eran pria, saggi e signori della lor mente renderli. E dirò non per muovere agli uomini alcun biasimo; ma la benignità mostrare io voglio dei doni miei. Ché prima, essi, vedendo non vedevano, udendo non udivano; e simili alle vane ombre dei sogni, quanto era lunga la lor vita, a caso confondevano tutto. E non sapevano né case solatie, né laterizi, né lavorare il legno. E a guisa d’agili formiche, in fondo a spechi dimoravano, sotterra, senza sole. E segno alcuno che distinguesse il verno non avevano, né la fiorita primavera, né la pomifera estate: ogni loro opera senza discernimento era, sin che sperti li resi a consultar le stelle, e il sorger loro ed i tramonti arcani. E poi rinvenni, a lor vantaggio, il numero, somma fra le scienze, e le compagini di lettere, ove la Memoria serbasi, che madre operatrice è de le Muse. […] guidai verso un’arcana arte i mortali; e chiari i segni della fiamma resi, che ciechi erano prima. E di ciò basti. E quante utili cose in grembo al suolo giacean nascoste all’uomo, il rame, il ferro, l’argento, l’oro, chi potrebbe dire che le rinvenne pria di me? Nessuno, sappilo, quando millantar non voglia. Ma tutto apprendi in un sol motto breve: tutte die’ Prometèo l’arti ai mortali.” Bisogna però aggiungere, per comprendere meglio la storia, che il “buon” Titano come il padre Giapeto, fratello di Crono, non appartiene alla stirpe degli Dei dell’Olimpo, Prometeo deriva per l’appunto da “pro-metis” cioè il preveggente, colui che pensa prima degli altri, facile capire perché fosse così temuto da Zeus. Più che buona anche la rappresentazione della ninfa Io, Melania Giglio, trasformata in una giovenca da Hera, poiché sedotta da Zeus, e costretta dalla stessa Dea a vagare di terra in terra (per tutto il mondo) con un tafano attaccato ai fianchi, afflitta da dolori lancinanti e scalciando come un’ossessa. Il buon Prometeo non può far nulla, ma le predice che le sue sofferenze avranno termine al suo arrivo in Egitto, dove partorirà Epafo, figlio di Zeus e probabile contendente e che infine le carezze di Zeus le restituiranno la sua figura umana. Anche Oceano, impersonato da Martino Duane convince, ma ancor di più un ottimo Simone Ciampi, altisonante come uno scagnozzo del “Padre”, credibile a rappresentar Hermes, che quale messaggero di Zeus invita Prometeo a rivelar quel nome del figlio di Io, Épafo. che per stessa profezia del Titano nascerà sulle rive del fiume Nilo dopo un lungo peregrinare della madre “cornuta”. Vistose ma ben articolate le oceanine, Marcella Favilla, Francesca Maria, Giulia Galiani, Marta Nuti, Giulia Diomede, Giuditta Pasquinelli ed Ester Pantano che rendono omaggio alla tragedia nel senso ampio di pietà e commiserazione propria dell’opera drammatica greca a ricordar della misera fragilità umana. Ottima l’atmosfera in cui è calata tutta la tragedia, un bellissimo destino interpretato da Salvo Lupo nel ruolo di Ananke, fantastica la location, le luci la musica che rendono il dramma eschiliano moderno, contemporaneo, quasi un’odierna fiction televisiva con cornici di frame legati in un’unica scatola cinese.

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Paolo Zerbo
Paolo Zerbohttp://zarbos.altervista.org
Paolo Zerbo Direttore responsabile Laurea in Sociologia Communication skills and process model ICT developer
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