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L’Inferno secondo Dante, Anfuso e i suoi “dannati” spettatori dove il peccato non è sempre delitto, mentre il delitto è sempre peccato

La coscienza per chi ce l’ha e la mette in scena potrebbe essere il trait d’union della scelta di Anfuso di alcuni passi della Divina Commedia e del suo già reiterato spettacolo soavemente collocato alle Gole dell’Alcantara. Come ogni buona parte del nostro cervello istintivo corroborato da una parte emozionale e logica, nell’Inferno “personale” di Anfuso, è stata fatta una scelta stilistica nel mostrare il concetto di peccato. Il libero arbitrio distingue i peccati a seconda dell’energia di volere nel peccatore. Dei sette, solo l’accidia, è negativo, che consiste nel non volere assolutamente il bene e nel non odiare il male: Dante punì gli ignavi, facendoli correre nudi nell’anticamera dell’Inferno sotto le punzecchiature di mosconi e vespe. Così come il regista li fa periodicamente e spasmodicamente dimenare a suon di tamburo e fiamme sul lembo di terra dall’altra parte del fiume, così stiamo noi spettatori ad osservare “i non nemici” ma neanche “gli amici” che per una vita abbiamo rivisto nel “non vivere” ma neanche nel “vivere”. È un inerpicarsi e un fondersi in questa selva oscura di zombie e di una triade che si appena composta: Dante, Anfuso e gli spettatori vissuti in simbiosi con i sette peccati capitali. Ricordando di tanto in tanto che gli ignavi siamo pure noi, facenti parte dell’universo quantistico, dove l’osservatore è in grado con il suo entanglement di modificare la realtà o proprio di non muoverla affatto non avendo neppur lontanamente un suo punto di vista, così come ahimè ci sta abituando sempre di più la nostra società priva di azione reale e direi anche virtuale. Ma torniamo ai nostri peccati nella scelta registica. Se il primo si spalma su tutta l’umanità e “infernità assisa”, gli altri sei peccati sono positivi, poiché si risolvono nel volere e nel fare il male; e Dante li collocò nel vero Inferno. Si può delinquere per un continuato atteggiamento imperativo dell’animo come avviene nella lussuria, gola, avarizia ed ira; o per una mancanza temporanea, contingente, di inibizione sui propri impulsi. I primi sono i peccatori statici, nei quali il male agire è sempre potenziale: deriva dal carattere che impone alla loro condotta personale una peccaminosità sempre pronta ad essere dimostrata.  Poi vediamo i peccatori in atto, cioè quelli che portano il loro infame reato nella sfera sociale, trasmutando così la delinquenza dalla potenzialità alla attualità, estrinsecandola, dal loro “io interiore” al loro “io sociale”. Esiste un “io somatico”, che determina la parte denominata egoistica, o meglio autistica, della condotta individuale. Biologicamente parlando sono tre nell’uomo gli appetiti di questa coscienza centrale: la fame, l’amore, e il possesso di qualche bene materiale. Così la scelta dei canti di Ugolino, Paolo e Francesca, Ulisse e Diomede. Attorno a questi tre motivi autistici, si esercita l’inibizione, risultato della lunga convivenza tra umani che esiste in tutti noi dimostrando che esiste un “io sociale”. Dimostrando la sua esistenza il cerchio della coscienza si allarga sempre più, e la condotta dell’individuo rispecchia le esigenze, le aspirazioni e le contingenze della vita collettiva. Quindi se l’attività individuale si adegua agli interessi ed ai sentimenti della collettività, si ha la normalità della condotta sotto il rispetto morale; se essa mira al conseguimento dei fini collettivi con preferenza su quello dei fini egoistici, si ha l’altruismo, ossia la virtù benefica od eroica; se invece prevale l’io somatico o primitivo nella sua irriflessività e nella sua prepotenza egoistica, quando si manifesta però nelle sue relazioni con gli altri, si ha la condotta antisociale, immorale, delittuosa. Il peccato perciò non è sempre delitto, mentre il delitto è sempre peccato. E su questo, cioè il peccato non è sempre delitto, il nostro Anfuso ci commuove col passo di Paolo e Francesca, che richiede sempre un plauso a scena aperta perché l’Amore “quando al cor gentil ratto s’apprende” e “a nullo amato amar perdona” dovrebbe condannare soltanto chi ha offeso col delitto i due amanti e non gli amanti stessi, che seppur traditori si amavano di amore “puro” e incondizionato. Infatti arriva Lucifero grande traditore a ricordarci a parte, Giuda Bruto e Cassio, che l’assassino dei due amanti si trova nella zona Caina dell’Inferno, a proposito di grandi traditori: e chissà se ancora una volta gli intendimenti di Dante e Anfuso si fondono con il pubblico assiso sul Tradimento, quello vero, e se l’atmosfera dello spettacolo ci abbia indotto oniricamente in una sorta di “non giudizio” dove osservare in silenzio i tradimenti della nostra vita: sia da traditi che da traditori. Come sempre da rivedere lasciarsi prendere e “più non dimandare”.

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Susanna Basile
Susanna Basilehttp://www.susannabasile.it
Susanna Basile Assistente di redazione Psicologa e sessuologa
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