Raccontare, attraverso uno spettacolo, la tragedia del capitalismo e della società dei consumi. Mettere in guardia, giovani e meno giovani, dall’imprudenza nel gestire prodotti finanziari. Vi sembra poco? L’iniziativa dell’Università di Catania, coordinata da Giuseppe Vecchio – Direttore Dipartimento Scienze Politiche e Sociali, Maurizio Avola – Coordinatore Master Customer Care e Tutela dei Consumatori, Douglas Ponton – prof. di Lingua Inglese, Renato Camarda – Coordinatore Gruppo di Iniziativa Territoriale Sicilia Nord Est Banca Etica, si è svolta con la rappresentazione di #TOOMUCHMONEY, scritto da Luciano Modica e interpretato in scena da Giorgia D’Acquisto e Giancarlo Latina, per la regia di Erika Barresi (foto: Giovanni Carrera).
Un racconto un po’ alienato alla Beckett, un po’ trapiantato nell’Italia volgare e romanesca della “grande bellezza”, e infine trasportato alla dimensione locale per consentire un’immedesimazione facile ma mai banale e ricca di spunti comici che però fanno riflettere con retrogusto amaro, per digerire qualcosa che non è nemmeno commestibile.
Quel che non è commestibile è il sistema finanziario contemporaneo, la facilità con cui vengono erogati prestiti che non sono risparmio da investire, ma scellerata dilapidazione del domani nel consumo di oggi. Questo è il capitalismo finanziario. E questo spettacolo sarebbe da portare in tutte le scuole e in tutti quartieri come già, meritoriamente, sta accadendo.
Lo spettacolo offre lo spunto per una riflessione più articolata, svolta in sede da Pinella Di Gregorio – Ordinario di Storia Contemporanea, con gli interventi di Maria Rosaria Acagnino – Presidente I sezione civile Tribunale di Catania, Gabriele Vaccaro – Banchiere Ambulante di Banca Etica Sicilia Orientale, Francesco Garrone – Banca d’Italia-Vice Direttore Filiale di Catania, che qui riassumeremo per grandi linee e interrogativi.
Un esame sulle tesi sempre più socialshared di vari apprendisti stregoni che propongono metodi di cambiamento del sistema economico può essere interessante? Fate voi. Ma, a ben vedere, il primo elemento è proprio una critica del fare.
L’analisi si apre con sguardo sgomento su queste pretese “politiche del fare”. In effetti, non c’è nemmeno modo di essere disaccordo: gli attori in gioco parlano sempre di cambiamento, mai di miglioramento. Quindi, nemmeno dissimulano: perché il cambiamento può essere anche peggioramento, come abbiamo visto in questi anni recenti.
C’è da fidarsi quando si ascoltano analisi rassicuranti sulla solvibilità del “sistema Italia”? Non vogliamo stare tra le Cassandre, né con i catastrofisti prezzolati. Ma possiamo credere davvero alle frasi anestetiche che abbiamo sentito pronunciare in seguito ai ripetuti downgrade subìti dal nostro Paese nelle scorse settimane?
Riportiamo dall’intervento del ministro agli affari europei Savona all’assemblea dei giovani industriali a Capri di qualche giorno fa: “C’è un punto di partenza nel quale non solo io credo, ma penso che credano tutti gli italiani. E cioè che il debito pubblico italiano è perfettamente solvibile, non c’è nessun problema che l’Italia imbocchi un default del debito pubblico”. E allora, perché – come scrive Giulio Romei sul Nuovo Corriere Nazionale del 22/11 – una banca come UNICREDIT sembra sul punto di scindere il “pacchetto Italia” dalle altre attività?
Non bisogna essere grandi economisti per comprendere che oggi, in un’epoca liquida, il valore del danaro non ha molto a che vedere con il costo di produzione del pane. Se questo è vero, significa anche che “debito”, “spread” ed altre parole amene del vocabolario economico riflettono, più che altro ed essenzialmente, rapporti di potere: e non rapporti di produzione.
Questa affermazione conduce a dubitare sull’opportunità di certe considerazioni sulla solvibilità perché, come affermato, non dipendono soltanto da parametri contabili ma anche se non soprattutto dai rapporti di forza tra economie nazionali e dalle intersezioni transnazionali delle banche.
In altre parole: il potere del danaro è arbitrario e oggi più che mai chi può usarlo può facilmente far soccombere una città, una regione, uno stato.
Affermare questo non ha valore assolutorio rispetto alle responsabilità degli uomini delle istituzioni: perché non è il “mondo cattivo” che ci condanna, ma sono gli stati stessi che possono fare l’errore di mettersi il cappio al collo con politiche “mordi e fuggi”, fatalmente inadeguate ad uno sguardo di medio periodo.
Cosa potremmo fare?
Qualcuno potrà definire ideologico e pretestuoso prendere in analisi come dato di partenza che l’economia monetaria è il vero problema. Può darsi, ma comunque va acquisito alla coscienza: finanziarizzazione, cartolarizzazione, swapizzazione o come altrimenti si voglia definire il prodotto derivato della trasposizione finanziaria dei rapporti di produzione, questo è il gravissimo problema di funzionamento dell’economia moderna. C’è un film di Martin Scorsese, “The Wolf of Wall Street” (ispirato all’autobiografia di Jordan Belfort e, dunque, tratto da una storia vera), che racconta un po’ cosa diventa possibile con questo sistema. E non è la descrizione delle vite dei santi.
Non potendo contrastare i fondamenti del capitalismo, dovremo cercare riparo in nicchie di sopravvivenza. Qui si innesta il tema dei beni comuni e della riappropriazione urbana, di cui tentiamo progressivamente di esplorare i contorni per applicarne qualche briciola cum grano salis e con quella logica che dice “pensa globale, agisci locale”.