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Né solida né liquida, ma fluida: ecco l’idea di città per il XXI secolo

Ma qual è l’utilità di un’idea di città, se c’è n’è una? E cosa succederebbe se non ci fosse nemmeno un’idea di città? Il Novecento ci ha portato a comprendere progressivamente che non esiste una realtà “oggettiva”, che le cose non sono come le vediamo (Il tradimento delle immagini, avrebbe detto Magritte dipingendo una pipa e scrivendo sotto “questa non è una pipa”), ma come le percepiamo. La nostra medesima vita, in certa misura, non è quel che è ma è quel che immaginiamo che sia: l’immaginazione, se non può abolire le condizioni date, può contribuire certamente al superamento dei limiti.
Una prima precisazione va fatta però sul concetto di “fare”: fare per cambiare non significa necessariamente migliorare. Per esempio un tornare indietro a quel liberismo che ha prodotto la crisi del ’29 e che è lo stesso meccanismo alla base della recessione economica che ha segnato il XXI secolo, dalle torri gemelle fino all’affare Lehman Brothers che è alla base della crisi bancaria del 2008 e che, strisciante, ancora perdura. Quindi, “fare per cambiare” è una frase per allocchi, di cui si può certo invitare a non fidarsi troppo. Il cambiamento dev’essere miglioramento, altrimenti è meglio non fare, non cambiare. Con saggezza orientale, Lao-Tze scriveva: “Se non c’è bisogno di fare qualcosa, occorre mantenersi nel Tao. Solo quando c’è bisogno di fare qualcosa occorre agire. Per questo il Libro del Tao è seguito dal Ching, perché quando si esce dal Tao occorre seguire la Virtù”. Se questo potrà apparire ad alcuni troppo filosofico (e non dovrebbe), mettiamo addizione di un concetto economico: la competizione sul prezzo più basso per la produzione di merci di scarsa qualità non è il modello competitivo che può andar bene per l’Italia: il nostro modello è raffinatezza e alta qualità.

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Il modello “Città Fluide” è un modo di vedere molto ben posizionato per concepire un cambiamento che non sia al ribasso, ma al rialzo, attraverso un mix tra società dei consumi e stato sociale. Vediamo un po’ da dove viene e qual è la sua origine. Frughiamo: e frugando troveremo che se Zygmunt Bauman è approdato al concetto di “Modernità Liquida” con il suo libro del 2000, Sandra Bonfiglioli (docente del Politecnico di Milano nota per le sue ricerche sperimentali sul rapporto tra urbanistica e società), già nel 1985 aveva coniato il paradigma di “Città Fluida”. Quella della Bonfiglioli non è dunque emulazione di un concetto affermato, ma è analisi autonoma che non solo anticipa ma, soprattutto, non assume le condizioni di deriva sociale che in Bauman declinano una completa resa alla società dei consumi. Le Città Fluide della Bonfiglioli rappresentano invece un modo attivo di vivere la dimensione urbana, per effetto dello sviluppo dell’informatica e dell’elettronica, anche qui senza limitare la dimensione “smart city” all’impatto della tecnologia, ma mettendo in risalto il nesso sociologico e antropologico della percezione della città e del paesaggio, moltiplicato nella possibilità di costruire a sé una personalità cosmopolita in condizione di comunicare con il mondo intero e istantaneamente. Per introdurre un cambiamento che sia miglioramento occorre quindi pensare la città in modo diverso, Al contrario dei vuoti a perdere della Modernità Liquida, il modello Città Fluide offre un sistema attraverso il quale il miglioramento viene creato dall’interazione cosciente e voluta tra comunità locale, nuova dimensione internazionale, tecnologia e applicazione locale territoriale.
Fluidità e Malavoglia. La ristrutturazione e la riscoperta dei monumenti è un segnale inconscio di apertura: la riqualificazione della fontana dei “Malavoglia” con fondi regionali (vedi articolo) è un ottimo segnale, di cui non è trascurabile l’elemento linguistico e letterario: non soltanto per la memoria dello scultore Mendola, che ha realizzato l’opera, ma anche per il riferimento toponomastico della piazza a Giovanni Verga e, soprattutto, per la scelta dello scrittore siciliano di chiamare “Malavoglia” la famiglia protagonista dell’omonimo romanzo. Anche se raramente si riflette su questo nesso, certamente Verga non lo ha creato a caso, ma per la precisa intuizione di racchiudere in questo nome la potenza che il destino scatena contro chi fa le cose senza amore. L’intervento è simbolico quindi non tanto e non soltanto perché riqualifica una parte importante e centralissima della città, ma anche per dare un sussulto e scuotere un immaginario di perdita e di sconfitta che ben si addice a una città che voglia intrattenersi nell’autocommiserazione o nel continuare a nascondere l’evidenza. In questo senso, lavorare ripristinando la fontana dei “Malavoglia” è anche atto simbolico di trasposizione della proverbiale “mala voglia” annidata nell’inconscio collettivo dei siciliani, per trasformarla in una nuova attitudine di superamento dei limiti culturali e di retaggio così che, in attesa che qualcuno capisca che all’ingresso della città non può stare una statua senza testa e senza spada, possiamo cominciare a pensare al superamento della situazione di crisi con la prospettiva di un atteggiamento non più orientato a nascondere le capre nel recinto, ma che davvero affronti a viso aperto la realtà fluida della vita.

Fluidità, magma, tempi e immaginario della città. Chi più di noi in Sicilia può avere percezione di questo concetto di fluidità? Accantoniamo i riferimenti alla letteratura psichedelica e al teatro d’avanguardia (che sicuramente ci sono, pur nascosti e dissimulati, nella teorizzazione della Bonfiglioli) e riportiamo con trasalimento l’urlo di Tifeo che echeggia dalle colonne di questa testata attraverso un articolo di Paolo Zerbo dell’ 8 dicembre, premonitore delle scosse sismiche di fine anno; e benvenuta lava che scorri dalla sommità del vulcano: perché ne allenti le tensioni telluriche. Fluido è, per eccellenza, l’avanzare magmatico della lava, simbolo minerale dell’energia che non si può contenere, che non può rimanere inespressa in implosione: siamo noi, città fluida. Il rapporto della prof. Bonfiglioli con Catania del resto non è nuovo e rimonta almeno agli anni ’90, quando Catania fu in partnership con il Politecnico di Milano per il progetto “Eurexcter” che aveva il suo fulcro sui tempi e gli orari della città, prefigurando una visione innovativa di decentramento metropolitano e desincronizzazione delle funzioni urbane. L’occasione di dialogo si ripresenta oggi con un altro progetto che assume il modello “Città Fluide” come vettore per investigare i rapporti tra città e porto in quattro esperienze urbane d’Europa: Cork, Aalborg, Brest e Catania. Come nel ’97 per “Eurexcter”, a seguirne gli sviluppi per la città di Catania sarà il professor Paolo La Greca. E alla fine, il paradigma della città fluida, come scrivono Maurizio Carta e Daniele Ronsisvalle dell’Università di Palermo in “The Fluid City Paradigm”, si manifesterà negli elementi che lo compongono: identità (valorizzazione delle specificità culturali e delle vocazioni), interattività (apertura al confronto, allo scambio, al turismo), interdisciplinarietà e multisettorialità (incrocio di competenze, di saperi e di saper fare), potenzialità (vedere l’idea), sostenibilità economica (concretezza di rapporti), dinamismo (imprimere costantemente energia, sia quando si vedono risultati e, soprattutto, quando non si vedono) e, infine, perturbazione: perché se una operazione ha impatto, crea sempre un effetto perturbante.

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