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Catania e il mare negato

Siamo quasi alla fine di quest’estate 2018, durante la quale migliaia di catanesi hanno usufruito, chi più e chi meno della smisurata costa che la contraddistingue. Ma forse non tutti sanno, mentre sono sfrenatamente alla ricerca di un posto ideale per rinfrescare le proprie membra accaldate che Catania è una città con quindici chilometri di costa, due chilometri e mezzo dei quali occupati dal litorale sabbioso, altri due dei quali occupati dal porto e gli altri caratterizzati da tratti lavici di particolare pregio naturalistico che si assestano a quote comprese tra gli otto e gli undici metri dove è stata inserita un’infrastruttura del peso della RFI (Rete ferroviaria italiana) che colloca in Piazza Giovanni XXIII la sua stazione passeggeri centrale. La porzione di Waterfront di cui i cittadini possono fruire è veramente irrisoria: risultano accessibili soltanto 2 km di costa, che trovandosi peraltro in adiacenza ad una strada ad alta velocità, presenta notevoli limiti di sicurezza ed accessibilità. A questo proposito, sorge la questione del nodo ferroviario, problema che attanaglia Catania da più di cento anni e che divide la città con il mare proprio dalla costruzione nel 1866 della ferrovia Messina-Catania-Siracusa, con gli attuali archi della marina. Nonostante le proposte continue di spostare a monte la linea ferrata per evitare la costruzione di una cinta di ferro tra la città ed il mare, tutto è rimasto invariato a causa delle svariate e variegate necessità del momento. Fu così inaugurata nel 1867 la stazione Catania Centrale, lungo la scogliera de Larmisi e, nel 1869 fu inaugurato un viadotto in muratura, detto “Archi della Marina”, che collega ancora oggi la stazione di Catania Centrale all’imbocco della galleria dell’Acquicella. In seguito, nelle vicinanze della Stazione centrale, fu realizzata una cittadella industriale per la raffinazione in situ dello zolfo, arrivato dalle miniere e successivamente esportato per via ferroviaria e marittima. Si cominciò a delineare un tessuto urbano frammisto di residenze e opifici industriali; a basse e minute residenze si alternavano altissime canne fumarie di trenta metri ancora oggi visibili, con una popolazione di artigiani e operai qualificati proprio in zona dei Martiri. La costruzione delle raffinerie continuò fino al 1905, periodo di massima produzione di zolfo e di massima espansione di tutto San Berillo, soprattutto nella zona adiacente. Nel dopoguerra, le miniere siciliane entrarono in crisi, cessando le attività, e gli stabilimenti furono abbandonati. Con la realizzazione di viale Africa la cittadella dello zolfo venne divisa in due sezioni, quella ad est confinante con la ferrovia, gravemente danneggiata nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, fu abbandonata del tutto e lasciata all’incuria, mentre quella ad ovest fu riconvertita in diverse attività di carattere commerciale, artigianale ed industriale che oggi conosciamo. Negli anni ottanta Ferrovie dello Stato S.p.A., che attualmente offre un servizio ferroviario prevalentemente a carattere di lunga percorrenza, per le linee Messina-Catania-Siracusa e Catania-Palermo, ha manifestato l’esigenza di risolvere il cosiddetto “Nodo Catania” definito anche passante ferroviario con il completo raddoppio della ferrovia in ambito urbano, proponendo progetti in affiancamento al tracciato esistente, in parte nel lungo termine. Si dovrebbe auspicare l’interramento della ferrovia, lungo la scogliera de Larmisi, e della stazione Catania Centrale, il tanto discusso masterplan di San Berillo, la viabilità in viale Africa, la questione porto e la sua apertura alla città e la rigenerazione della scogliera catanese. Tutti questi aspetti, di cui si parla da decenni configurano uno degli scenari più interessanti rivolto al futuro della città, un intervento che restituisce il mare alla città, e la città al mare. Ma la progettazione e il riuso soprattutto, degli spazi urbani, riesce fondamentalmente, se è nel complesso partecipata e accettata dal cittadino, così come la riqualificazione di aree dismesse possono contribuire a completare le carenze del quartiere e delle città. diventa importante il calcolo della connettività col progetto-città, connettività che rappresenta uno degli elementi di successo per la sostenibilità urbana in grado di definire un’estetica “connessa” degli spazi urbani e non costruire delle isole vere e proprie.  Si è disposti a considerare il territorio come qualcosa di più ricco e complesso, rispetto ad uno spazio racchiuso tra una soglia minima, lo spazio vitale (quello geografico-sociale, non quello ideologico), e una massima, lo spazio difendibile. Tutto il territorio subisce e vive in funzione del vacillante equilibrio che oscilla tra l’aggressività intraspecifica e l’attrazione sociale, aspetti questi che coincidono con la perdita dei confini e la perdita del centro, o perlomeno dei simboli storici. «La città contemporanea appare ora come una città di flussi senza luoghi, un divenire continuo, una città che non ha confini e che ha dissolto le proprie forme spaziali di organizzazione, una città senza centro e senza periferia sterminata che si fa città, dove l’omogeneità del moderno è sostituita dalle differenze che producono sette separate e incomunicabili» (Scandurra, 2007). L’ecologia della città, riferita a queste particolari relazioni del tessuto urbano con le strutture progettuali votate alla persona, conduce ad una revisione ampia, già applicata a diverse esperienze di rigenerazione come città e organismo vivente. In tale prospettiva, la dimensione urbana ha assunto una forma reticolare in grado di esprimere un modello di città ecologica in cui la multifunzionalità degli spazi gioca un ruolo cruciale. «Se proviamo a considerarli, pur nella loro varietà, come aspetti di una stessa presa di coscienza, ne risulterà evidente che diritto alla città e diritto alla natura si stanno affermando come i due poli per un nuovo discorso che leghi l’etica della cittadinanza, il senso del bene e la qualità del vivere civile. Questo e solo questo è il senso originario della parola greca politica: non come nel gergo corrente, mestiere di chi si dedica ad attività di governo, bensì discorso fra i cittadini mirato all’interesse generale della comunità (della polis). Città, paesaggio, opere d’arte, ambiente sono beni e nozioni legate ai diritti della cittadinanza, perché in essi fiorisce la possibilità di una comunità che non sia dominata dai particolarismi e dall’illegalità, ma dalla lungimiranza e dalla democrazia» (Settis, 2009). La “città” appunto, intesa come forma mutevole di un registro sul quale viene continuamente scritta e riscritta la storia di una comunità. Gli architetti devono “solo” imparare a leggerla, per condividerla con i cittadini e fare del progetto urbano un’occasione di riappropriazione collettiva del luogo. Nasce così un’idea di laboratorio, diversa in ogni città, in ogni contesto sociale e urbano ma con temi comuni costanti e soprattutto necessari come: la partecipazione attiva degli utenti che monitorizzano e co-progettano sino alla realizzazione; la totale integrazione tra analisi, piano e progetto; la concezione del recupero come grande occasione di ridisegno urbano; l’approccio olistico alla conoscenza fisica della città. Questo tema ripropone, col processo in atto di rivalutazione della città storica e naturalistica, una forma di diritto alla città grazie all’insorgere di un crescente malessere urbano e politico evidenziato in Città ribelli (Harvey, 2012), che rilancia un discorso politico contemporaneo, quello dei beni comuni, che si oppone radicalmente alla mercificazione e privatizzazione degli spazi. Lo sguardo contemporaneo talvolta è uno sguardo parziale, eterogeneo, multiforme come i territori e paesaggi che racconta, territori che eludono una genesi determinista, ne eludono pertanto anche la narrazione; lo sguardo da verticale tende a farsi sempre più laterale, periferico, eclettico. Le strategie, elaborate dai governi, dalle istituzioni e dalle strutture di potere descrivono, attraverso strumenti come mappe, griglie e piani la città come un concetto, un’entità unitaria allo scopo di istituire una serie di relazioni ufficiali, oppure per elaborare una difesa da avversari, clienti, competitori o semplici soggetti. Invece la gente comune come forma di resistenza creativa a tali strutture genera uno sguardo orizzontale che si muove al livello stradale, è lo sguardo della gente comune che opera scorciatoie suggerite dalla pratica quotidiana dello spazio. Lo spazio aperto è di tutti, naturalmente, un punto di incontro dove tutti possono accampare uguali diritti, che essi siano cittadini o meramente residenti. Un terreno neutro che non predetermina l’esito del confronto conduce ad un’assenza di insediamenti riservati a particolari tipologie di soggetti che non ne condiziona l’accesso. In questo scenario cresce il concetto di città come oggetto testuale, nel quale la dimensione estetica ne riconoscerebbe il senso comune, in una sorta di serendipity urbana pur contrapposta alla eterogeneità degli elementi costitutivi che sorgono intorno. La società in quanto sempre più individualista e anonima, pur nella ricerca della coesione sociale, inietta nella vita quotidiana di gruppi anche multiculturali, proprio per il suo carattere universale al genere umano, una base solida su cui costruire dei percorsi di trasformazione condivisi. Contrariamente agli interventi urbani su grande scala, nei quali il sistema di decisioni parte dall’alto ed è soggetto ad un lungo ed estenuante percorso burocratico, il processo micro urbano si potrebbe intendere in questo senso, come una manipolazione architettonica dell’intelletto collettivo della città, promuovendo interventi dal basso che attivino le energie-sinergie della collettività. Una città vivibile dovrebbe essere anche una città attrattiva, capace di emozionare e sollecitare buone pratiche ai cittadini, in una conquista al decoro urbano comune. La città costituisce oggi una sorta di organismo sensibile multi-dimensionale in cui interagiscono energie e persone, un ambiente vivo che attraverso un collettivo attivo, come quello dei cittadini possano risanare i luoghi della necessità, rivitalizzando zone sensibili della civis e con il tempo diffondersi in tutta la città. Condividendo, così, lo spazio di relazione fra entità composite, diventa importante creare nuovi ambienti che siano strumento ed espressione di nuovi comportamenti, tra i quali la dimensione ludica, indispensabile per la sua capacità di coinvolgere entità eterogenee, permettendo di reinventare i rapporti fra individui e lo spazio sprigionando la creatività di ciascuno. Potrebbe significare quindi in prima istanza innescare una dinamica circolare fra la trasformazione degli spazi e la trasformazione delle relazioni che in esso hanno luogo, invitando chi abita lo spazio stesso a trasformare il proprio ambiente, permettendo di costruire ad un tempo spazi e relazioni inedite e condivise. Insomma anziché costruire lo spazio in una sorta di dismorfofobia delle diverse comunità che abitano e vivono attorno e sullo stesso litorale, quello catanese, potrebbe essere necessario un processo di ricomposizione delle componenti architettonica, paesaggistica, artistica, ambientale e sociale traducendo anche attraverso la storia delle diverse comunità uno spazio con nuove e reinventate forme di auto-determinazione collettiva.

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di Paolo Zerbo

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Paolo Zerbo
Paolo Zerbohttp://zarbos.altervista.org
Paolo Zerbo Direttore responsabile Laurea in Sociologia Communication skills and process model ICT developer
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