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HomeRubricheL'intervistaSonja Gherbi una scrittrice dalle "radici mischiate" tra Sicilia e Algeria

Sonja Gherbi una scrittrice dalle “radici mischiate” tra Sicilia e Algeria

Sonja Gherbi mediatrice culturale, scrittrice dalle radici mischiate, come dice lei, tra Sicilia e Algeria, ci racconta la sua vita e la sua ragion d’essere. Il suo libro d’esordio “I piedi fuori dall’acqua” sarà oggetto di prossimi articoli.

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Chi è Sonja Gherbi?

Sogno e mi destreggio nel trovare una via d’uscita, un’alternativa ad una realtà e identità confezionate secondo i giudizi e i pregiudizi della gente. La Sicilia è stata la mia culla, nessuna terra è mai stata così generosa con me e lasciando che le mie radici si mischiassero con l’acqua del mare, ho conosciuto la terra di mio padre: dall’amore tra due adulti di culture “leggermente” diverse sono nata io, una meticcia che non sembra tale, dalle sembianze perfettamente italiane e con un accento di provenienza siculo-orientale. Insomma, nata ai piedi dell’Etna, vivo parte della mia infanzia in Algeria, continuando il mio percorso di crescita e di studi a Catania. Dopo essermi laureata in Lingue e Civiltà Orientali presso “L’Orientale” di Napoli, inizio a lavorare come mediatrice culturale, avendo la possibilità di arricchire il mio bagaglio culturale e umano, dando forma ed espressione ad una ricerca profonda e concreta di me stessa.

Perché scrive libri?

Scrivo per amore, diletto, necessità, scrivo libri perché amo la parola quando si fa leggera poggiandosi sui cuori dei lettori. Scrivo per esercitare la mia creatività e quel senso critico che non accetta di perlustrare il solo superficiale. Scrivo libri perché amo le storie raccontate e donarle, concedendo spazio e tempo al senso profondo che racchiudono.

È una forma di autoterapia?

Si, il mio sé non avrebbe varchi per il benessere senza l’analisi dei miei limiti e senza la propensione a condividere i risultati di una crescita personale attraverso la scrittura. Scrivere mi rende libera: mi dà modo di mettere ordine tra i pensieri, anche se a volte, invece, bisogna scatenare il caos, mettersi in discussione per raggiungere quello stadio in cui l’estasi delle parole diventa antidoto alle bruttezze e agli acciacchi del mondo, è balsamo per l’anima in una costante mediazione con l’universo che l’ha accolta.

Qual è la sua mission?

Dare voce a coloro che non ne hanno più a furia di urlare in solitario, a chi crede ancora che la ricerca del bello sia quella del bene supremo, che è l’amore universale, a coloro che amano mettersi in discussione per trovare soluzioni e far vincere ogni tanto quelli che la società esclude o rende “diversamente qualcosa”.  Credo che la mission di ciascuno sia sempre soggetta alle incognite della vita e che abbia radici profonde in noi.  Aspirare alla saggezza, al giusto, all’armonia tra il divino e l’umano, i pieni e vuoti della vita, ma pensando a questa mission, che ha l’aria di essere irraggiungibile, una risata autoironica balza dal mio petto e ancora ne ricerco l’eco, forse sarà in un’altra vita.

Che cos’è la letteratura?

Se dovessi cimentarmi nel trovare una definizione consona, penso che mi ritroverei a ricercare nozioni scolastiche e citazioni rubate alla mia labile memoria. Invece, di getto, nel vortice delle associazioni d’idee, balza alla mia attenzione il verbo RACCONTARE, poi, la parola UMANITA’: raccontare l’umanità. Mi riferisco alle mille fragilità e limiti dell’essere umano che nella letteratura diventano fonte d’ispirazione e un atto di condivisione.

Il piacere del racconto e l’urgenza di salvaguardare i sentimenti e i valori dei popoli, anni, secoli di storia, poesia scritta e orale, perché gli orizzonti della letteratura non riguardano solo la parola scritta, non solo, nella letteratura vive la tradizione orale e non solo. La letteratura non ha limiti quando dà voce alle culture e all’empatia degli uomini.

Chi sono i suoi lettori?

Sicuramente persone curiose, che non possono fare a meno di raccontare il mondo se non con un pizzico di poesia, che scavano in fondo, anche tra i resti di una storia dimenticata e sempre sanno specchiarsi in ciò che vedono. Sono persone libere che nella libertà di scelta, vogliono assaporare la vita formando le proprie menti nella prospettiva di un cambiamento che riguarda tutti.

Crede nell’immortalità della parola?

All’origine della parola sono i pensieri e tutte quelle emozioni che ci rendono come siamo, anche se nel caos di suoni e silenzi non sempre riconosciamo qual è la nostra voce. È un mondo rumoroso, senza pause, dove il tempo è cannibale e gli uomini non arrivano a crescere. Dov’è l’immortalità se non in quello che dio ha donato agli uomini, che resta a loro invisibile se non avessero un’anima, un elisir, l’amore? È qui che risiede l’immortalità della parola, quando la forma diventa sostanza e nell’agire in questo mondo compassione: quando l’altro sei tu, tutto l’universo.

Come finirà con “l’ignoranza dei social?

È un argomento che spesso subisco in quanto posizionata volontariamente ai margini di un universo comunicativo, quello dei social, dove i linguaggi e i tempi di riflessione restano soggetti, a mio parere, ad un consumismo della parola. Questo non toglie la grande considerazione che ho per l’apertura che i social rappresentano ad una visione più globale del mondo e delle sue sfaccettature, in grado di accorciare le distanze fisiche, temporali e culturali. Ma la comunicazione non dovrebbe avere fretta: le informazioni dovrebbero aver tempo e spazio intimo nel quale essere assimilate e maturate. Sicuramente l’utilizzo dei social sta cambiando le modalità di approccio e interazione nella sfera dell’informazione e in quella delle relazioni.

In quale direzione stiamo andando secondo la tua opinione?

La direzione dovrebbe essere che tutti hanno diritto di parola e ogni opinione può divenire paradigma di una possibile verità. In questo senso e in una visione orizzontale della società si legittima la considerazione di un futuro propenso alla parità e alla libertà di espressione. Non riesco, però, ad avere una visione positiva di quello che sarà il futuro dei social come luogo di scambio e crescita, m’intimorisce. La mia percezione è di una vetrina sulla nostra intimità, che l’apparire diventi l’unico strumento per sentirsi vivi e per constatarsi parte di un mondo nel quale il virtuale è sostanziale. Mi auguro che questo non porti a legittimare un senso di spaesamento culturale e omologazione oltre che comunicativa anche sociale.

 

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Paolo Zerbo
Paolo Zerbohttp://zarbos.altervista.org
Paolo Zerbo Direttore responsabile Laurea in Sociologia Communication skills and process model ICT developer
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