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Sebastiano Mancuso, in Teatro, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma

Fare teatro una dichiarazione d’amore all’eterna follia del palcoscenico

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“Vano è delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire” questa è la frase che ancora oggi è scritta sul muro del boccascena del teatrino dell’oratorio del mio paesello. Forse è nata lì la passione; di sicuro li è uscita fuori… ed ancora oggi per me quella frase è importante: sono vane le scene, (quelle rappresentazioni) che non servono alla crescita ed al miglioramento dell’uomo.

Da bambino frequentavo l’oratorio più che altro mi piaceva andare nel teatrino attiguo. Quel teatrino era pieno di libri e copioni che il prete, un sant’uomo, metteva a disposizione di noi ragazzi. Per me era una gioia stare lì anche da solo a leggere. Ricordo che veniva anche il maestro di coro, Isidoro la Rosa, un uomo di grande cultura. Sotto la sua guida iniziai a studiare la drammatizzazione delle rappresentazioni Sacre medievali, in particolare lo studio dei Codici Gregoriani dell’alto Medioevo e della Polifonia Rinascimentale. Proprio in quel teatrino…

È difficile rispondere con precisione a questa domanda, perché la passione per il teatro c’è sempre stata. Fin da piccolo scrivevo, creavo, pensavo, insomma avevo già mostrato i primi segni di una creatività poi esplosa nell’adolescenza grazie ad un libro che comprai quasi per caso…

Mi dicevi Il mistero buffo di Dario Fò. L’hai mai conosciuto perché la sottoscritta è stata tre anni ad Alcatraz a fare corsi con lui, mangiare con lui, cantare con lui, ridere con lui e soprattutto “stare” con lei Franca Rame: una volta conosciuta la loro amabile follia non si torna più indietro è come un’epidemia…

E quindi come è iniziata questa malattia?

Dopo le Superiori volevo iscrivermi in filosofia. Una mattina, senza dire niente, mi alzai e andai nella segreteria dell’università. Li incontrai un mio amico e mi disse che voleva provare a fare il provino d’ammissione alla scuola d’arte drammatica del Teatro Stabile di Catania. Mi chiese se volessi farlo pure io, almeno per fargli compagnia e lo accompagnai. Feci una foto veloce e la stampai in una di quelle macchinette a moneta.Mi iscrissi così senza pensarci: poi finì che io fui ammesso e lui no . Fu lì che incontrai per la prima volta il mio Maestro Lamberto Puggelli. La mia vita cambiò radicalmente grazie a questo incontro. Mi innamorai di quest’uomo come un figlio si innamora di un padre. Mi innamorai non proprio del teatro come espressione di spettacolo, ma di quello che il teatro poteva fare, dell’immensa forza che questo “mezzo” ha, dell’importanza sociale di una rappresentazione teatrale. Ho incontrato molte persone grazie a lui quali: l’indiano Nair Karunakaran Kalamandalam e il teatro Katakali; il senegalese Mamadou Diume e il suo teatro animista; il maestro Ferruccio Soleri e la Commedia dell’Arte e la maestra di Mimo la francese Marise Flach.

Quindi formarsi nelle varie scuole di teatro è un’esperienza che consigli a chi vuole iniziare questa “carriera”? 

La “scuola” è “necessaria” ad un attore come è necessario respirare ad un essere umano, perché comprendi e realizzi quanto sia importante coltivarsi e crescere. Poi iniziai un cammino individuale che mi portò a Siena, in Francia, in Svizzera dove studiai tutto quello che era il teatro medievale, i suoi fautori, le sue figure più importanti. Ed ancora oggi (e sarà sempre così) mi tuffo dentro i libri di storia e filosofia che mi aiutano a dare una collocazione più sensata alla mia esistenza.

Sei un attore, un autore, un regista…

La mia formazione è di attore. Ma dopo aver incontrato un maestro come il mio capisci che il teatro è una macchina dove tutto il gioco delle parti sono di uguale importanza: dall’assistente, al costumista, dall’attore, al regista. Capisci che il teatro serve agli altri non al proprio ego, serve anche a sé stessi nella misura in cui realizzi che hai delle cose da dire e un pubblico che le ascolta: ed è lì che capisci di avere una grande responsabilità.

Perché questa scelta e qual è secondo te il motivo d’interesse del pubblico di oggi?
È difficile teorizzare il lavoro dell’artista. Come è difficile teorizzare cosa davvero piace al pubblico. I testi più belli, anche quelli antichi, trattano sempre dell’oggi, perché mostrano i recessi o i progressi della condizione umana in modi che è impossibile spiegare, se non con una messa in scena. Il teatro non è un processo razionale o logico. È un gioco che permette di trattare la realtà e spiegarla. Sta proprio qui la creatività, l’arte. La parola arte viene da artigiano. Artefare la realtà. Arte-Fare. Una messa in scena è la storia di un uomo che diventa estraneo alla realtà si immerge in modi strani, miracolosi, più per il volere del Gioco teatrale che per la sua volontà. Parla del mistero dell’amore, del mistero della morte, della vita, del suo essere animale sociale. Insomma parla di umanità.

Quali sono i drammaturghi che rappresentano un punto di riferimento, o che hanno avuto una forte influenza su di te?
I grandi scrittori come Sofocle, Euripide, Shakespeare, Racine, Fò, Ibsen, Ionesco, Pirandello sono tutti affascinanti perché hanno la capacità di ingannarci. Il mio Maestro diceva sempre: “A teatro è più sapiente chi si fa ingannare”. Questi grandi scrittori riescono ad emozionare attraverso dei personaggi che dicono “parole” che celano la natura umana. Ecco perché questi testi sono arte. Sopravvivono perché continuano anche dopo secoli a spiegarci cos’è la vita. La vita col tempo, gli usi e i costumi, cambia. Queste opere affrontano le domande eterne dell’uomo sull’amore, sulla perdita, sulla politica, sulla redenzione e sull’abbandono. È la vita che viene messa in scena ed è svelata la carnalità dell’esperienza umana. Ad esempio, molte opere parlano di colpa, omicidio, vendetta, ma non si limitano solo a parlarne, suggeriscono la disperazione che sostiene tutte queste afflizioni e qual è il modo per trattarle. Nel mondo del teatro esiste una parola bella che serve per entrare nell’opera e uscirne rinnovati, consapevoli: Catarsi.

La tua Esperienza a Parigi

Nel 2017 Abbiamo debuttato a Catania al Teatro del Canovaccio con Che fine ha Fatto Baby Jane? un testo scritto da Mirco Sassoli tratto dal romanzo di Heny Farrell. È stata un’opera ardua perché vuoi o non vuoi il pensiero va al film del 1962 con Bette Devis e Joan Crawford per la regia di Robert Aldrich. È stato un “teamworking” anzi per usare un termine che mi piace di più, è stato un Cantiere Aperto. La mia collaborazione con Mirco ha portato al risultato finale di un testo più canonico rispetto al romanzo, mentre la collaborazione con il cast ha portato uno prodotto finale che ha spiazzato totalmente chi aveva visto il film. Questi due personaggi rappresentavano Jane (Elmo Ler) e Blanche (Loriana Rosto) la condizione disincantata, a tratti commovente, di due donne, due dive, che non solo hanno vissuto, ma addirittura hanno vestito e incarnato il “sogno” di molte generazioni; due star famose e inarrivabili, in bilico sull’oblio, cullate e minacciate dai ricordi, faticosamente impegnate a trovare nuove collocazioni dopo un impietoso, quanto forse inevitabile sfratto dal mondo del sogno. Emergerà, la difficoltà di una donna sola di adeguarsi ad una realtà nuova e scomoda, tentata dal fascino dei sogni e dei ricordi quanto da quello dell’alcool. Hai presente quando ci sono le anime fragili che vivono di ricordi che fanno male? Animali in trappola! Che si soggiogano a vicenda prima una e poi l’altra. È un tributo ai miti e al divismo contemporaneo, al Narcisismo Patologico, alle ambizioni dorate e alle disillusioni feroci; è maschera esplicativa che spiega come oggi si deforma patologicamente il vero senso dell’ambizione, trasformandolo in uno stato mentale e sociale di riuscita impregnato di eccesso e di smania. Bisogna realizzarsi ad ogni costo, con il massimo del successo e della visibilità, così da far sentire la persona speciale e vincente. O va così, o ci si sente dei falliti. “Realizzarsi” non è più una naturale evoluzione della propria originalità, diventa una lotta per adeguarsi a un modello di successo uguale per tutti. Dopo Catania, siamo arrivati a Roma, poi a Torino e da Torino siamo arrivati a Parigi dove abbiamo allestito Baby Jane in francese e andato in scena al Theo Theatre. Un sogno. Il pubblico parigino è molto attento, si fa ingannare, ha voglia di farsi ingannare, ha voglia e fame di andare a teatro. Per noi è stato un esame molto importante e le critiche sono come dei voti che ci dicono che siamo andati bene.

Progetti futuri?

Molti. Ma sono un teatrante non parlo per scaramanzia. Posso dire solo che ci sarà un nuovo lavoro con la squadra di Che fine ha fatto Baby Jane, ingrandita da un nuovo membro, un attore francese di origine italiana, un inedito Piano Piano dolce Carlotta che debutterà a marzo al teatro Angelo Musco di Catania.

Poi tornerò a Parigi per due nuovi progetti: uno che mi vede impegnato come regista e poi terrò un workshop sul teatro medievale e rinascimentale, la tecnica del teatro narrativo giullaresco sui canti della divina commedia d’altronde io non sono né un attore né un regista: sono un Giullare.

A breve c’è Il laboratorio ed è un progetto che mi sta impegnando molto.

Partirà il 16 ottobre al Piccolo Teatro Paladino via Cesare Vivante n.45 ore 20.30 con un primo incontro gratuito e conoscitivo. Sarà un cammino che nella sua pienezza sarà devoto allo scambio relazionale tra individui. Vorrei creare una dinamica sociale dove ognuno è una testa pensante e includa sé stesso dentro questo contenitore chiamato Laboratorio. Non è un classico laboratorio ma un Cantiere Aperto. Un posto dove si studia e si crea.

E come dice la Legge della conservazione della Massa postulato fondamentale del fisico Lavoisier:

 «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma». Nel Teatro una legge da rispettare, ossequiare, redimere inesorabilmente.

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Susanna Basile
Susanna Basilehttp://www.susannabasile.it
Susanna Basile Assistente di redazione Psicologa e sessuologa
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