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Il Comune imprenditore e la riforma del welfare

Per effetto della situazione internazionale tutti i Comuni italiani si trovano in una serie di difficoltà economiche crescenti

Per effetto della situazione internazionale tutti i Comuni italiani si trovano in una serie di difficoltà economiche crescenti. Le due ragioni principali di crisi e cioè gli enormi costi energetici e la guerra (sono due cose diverse e abbiamo capito che non sono completamente connesse fra loro se non come origine storica della crisi e come tempistica) impongono una ridefinizione del sistema del welfare. E’ risaputo che le città italiane costituiscono i terminali dei servizi alle comunità e le difficoltà di reperimento delle risorse del potere centrale non possono che determinare delle scelte importanti, dolorose e socialmente rilevanti da parte dei Comuni. Il rischio del taglio dei servizi è reale e in questi giorni, nell’attesa del nuovo governo, i Sindaci si trovano a valutare che cosa e come tagliare.
Da tempo i Comuni non usufruiscono più dei trasferimenti statali e i casi in cui ciò è avvenuto (si pensi alla situazione di pre-dissesto del Comune di Catania che ha comportato il trasferimento di somme eccezionali dallo Stato al Comune, peraltro rivelatosi alla fine inutile) sono del tutto eccezionali. Questo comporta che le risorse reperibili per il welfare e i servizi in capo ai Comuni sono prevalentemente interni, cioè vengono ricavati dalle multe, dai corrispettivi connessi al traffico viario quali i parcheggi a pagamento, dalle tasse di concessione amministrativa, dalle tasse turistiche. Ciò premesso gli amministratori delle città italiane sia quelli delle città virtuose che quelli delle città maggiormente indebitate, oltre al problema non secondario di raggiungere il pareggio di bilancio e all’impossibilità di fare debiti per costi incrementali crescenti, devono scegliere cosa tagliare. La scelta ad esempio di tagliare i costi di illuminazione stabilendo dei razionamenti per fasce orarie pone l’immediato, non secondario problema alla sicurezza e all’incolumità pubblica. Un’altra rilevante voce di spesa del ‘welfare’ in capo ai Comuni è sempre per esempio quella che gli stessi sostengono per l’aiuto ai minori stranieri non accompagnati, la cui emersione dallo stato iniziale di illegalità fino all’integrazione nel tessuto sociale della comunità è un costo che i Comuni doverosamente sopportano e che poiché è un intervento progressivo non è
suscettibile di essere tagliato con l’accetta.
Einaudi a proposito dell’attività delle imprese ammoniva con spirito autenticamente liberale di “Non mettere lacci e lacciuoli alle imprese”. Ecco il principio dovrebbe valere anche per i Comuni alle prese con i problemi di ‘welfare’ interni.
I servizi offerti dai Comuni dovrebbero andare oltre le fragilità conclamate e i Comuni, come qualsiasi altra impresa, dovrebbero poter fornire servizi a pagamento in favore dei figli delle famiglie divorziate piuttosto che dei figli che necessitano di sostegno psicologico, prevedendo forme di pagamento privato del servizio che possa ripagare il welfare anche in favore dei meno abbienti nella comunità sociale.
Questa soluzione, a ben pensarci, ci riporta indietro di mille anni. Richiama in modo specifico il problema dei rapporti tra lo Stato centrale e i Comuni. Dobbiamo tornare all’Italia dei Comuni per ritrovare un sistema efficace di servizi al cittadino.
Dopo l’anno Mille, la crescita della popolazione urbana, che durerà fino alle catastrofi
demografiche del Trecento, è sostenuta da un’ altrettanto impetuosa crescita economica. Nelle città la popolazione si diversifica, i nuovi ceti di mercanti e bottegai si affermano, garzoni e lavoranti arrivano dalle campagne e queste nuove comunità desiderano amministrarsi in maniera sempre più autonoma rispetto al potere dell’impero.
Il movimento comunale coinvolge tutta l’Europa, ma in Italia ha un’importanza e una diffusione enormi, più di quanto accada in altri Paesi.
Federico I Barbarossa fin dall’inizio del suo regno inizia a compiere spedizioni nella penisola per contrastare il potere dei comuni del nord Italia, arrivando persino a distruggere Milano. Per contenerne l’avanzata e difendere la loro autonomia, i comuni dell’Italia settentrionale decidono di formare un’alleanza. E sul palcoscenico degli scontri compare un nuovo protagonista: il cittadino.
Il Comune come luogo di sperimentazione istituzionale: le vicende sviluppatesi
dall’affermazione della città vescovile nell’alto medioevo alla crisi delle città-stato tra Due e
Trecento, mette in luce, nei passaggi che scandirono le diverse fasi della storia comunale italiana, la persistenza di un percorso istituzionale attraverso “prove” successive, che via via adattavano e ridisegnavano tipologie, uffici e pratiche di governo nel quadro di una società mobile e dinamica, contrassegnata da un notevole ricambio dei ceti dirigenti.
In questo quadro particolare rilievo assumeva lo stretto rapporto tra città e territorio rurale, in quanto le campagne, dal punto di vista degli interessi cittadini, non solo svolsero il ruolo
determinante di riserva annonaria, bacino di prelievo fiscale, cintura di sicurezza in ordine alla difesa militare, ma costituirono anche lo spazio entro cui in buona parte si definiva il gioco dei rapporti economici e politici, e dei conseguenti equilibri, all’interno dell’ elite cittadina dominante.

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E’ evidente che non si può tornare indietro di mille anni perché nel frattempo la storia ci ha
consegnato uno scenario completamente diverso in cui la centralità dello Stato è insopprimibile.
L’insegnamento che se ne ricava è però quello di ritrovare quello spirito di organizzazione e di impresa che i Comuni seppero mostrare e praticare, divenendo del tutto autosufficienti, anzi producendo ricchezza effettiva.  E scusate se è poco.

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Claudio Basile
Claudio Basile
Avvocato Claudio Basile Per info e contatti: [email protected]
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