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Recensione del romanzo di Federico Fini: “Chiedi a Coltrane”.

(di Francesco Cusa) Il romanzo di Federico Fini è il prezioso, lucido resoconto del delirio frammentario di uno scrittore appassionato di jazz e del dialogo con i suoi vari doppelgänger, di un esploratore del Sacro che finge di essere scettico e disilluso in un mondo abitato dall’assurdo.
È un romanzo dalla scrittura consapevole che si nutre del frammento e dello sprazzo, della deflagrazione della vita di cui l’autore non intende minimamente ricomporre i cocci. Siamo di fronte a un processo catartico che vede la memoria in qualità di imputato principale di una sorta di iniziazione che porterà il protagonista ad amare fuori da ogni contingenza spazio temporale. Il connubio tra la visione pessimistica dell’esistenza del protagonista e il “coro” ultraterreno di zombie, trova nel jazz e nella musica il collante necessario all’ancoraggio sonoro di una trama caotica e di una scrittura onirica che vive nutrendosi delle scorie di una vita consacrata al dettaglio della frammentarietà.
I compagni “lynchiani” di viaggio del protagonista sono il cane fantasma Coltrane e uno spirito di nome Spice che proviene da una diversa dislocazione dimensionale. Il dialogo introspettivo si svolge sul piano del linguaggio telepatico nel costante contrappunto con la vita “reale”, caratterizzata da un andamento farraginoso in cui i “fatti” vanno a diluirsi nei vapori di una sorta di spleen fiorentino – “Spice e Coltrane avanzavano al mio fianco, mentre spingevo il carrello. «Sono punti di contatto…» disse il vecchio, indicando la corsia dei surgelati. «Ci ritroviamo tutti qui… Per il freddo, per la folla…». Cadaveri e fantasmi di vite trascorse si mischiavano, creavano ressa, dandosi convegno tra i carrelli in un tutt’uno con i vivi”.

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In certi momenti si ha come l’impressione di esser canzonati dall’autore, un po’ come accadeva al Castaneda vessato dai suoi maestri (Spice beve ad un certo punto “Don Juan”), e si procede nella lettura inebriati dagli effetti dell’alcool e soprattutto del jazz, che, per tramite del John Coltrane di “A Love Supreme” e “Ascension”, rappresenta il vero mantra in grado di connettere le varie realtà multidimensionali in un unico, eterno canto. E quello del protagonista è un itinerario di decostruzione di vite e forme che vibra delle stesse frequenze del percorso artistico e spirituale del grande jazzista di Hamlet, probabilmente qui presente nella forma di daimon canino in soccorso e veglia del dantesco viaggio, assieme all’allucinata guida Virgilio-Caronte-Spice.
Il trapasso ruota intorno al centro della memoria fervida e pulsante dell’Io che, in “Chiedi a Coltrane”, par farsi legione e molteplicità dell’essere: “Siamo Dio in questo deserto, solo noi conosciamo quanto occorra per amare, per sottrarsi alla canea. Ogni cosa vive e muore senza soluzione di continuità, ma risorgere è altro. Si nasce, morendo, questo è il punto. C’è chi dopo caduto resta nella polvere senza risorse e chi torna più forte di prima. Viviamo in mezzo ai fantasmi, lo siamo noi stessi”.

Il lettore vive così l’esperienza dello straniamento, dell’illusorietà e dell’incanto, ma al contempo la lucida e scientifica analisi dei fenomeni, in una sorta di trattato distopico del Multiverso e,dell’assurdo che si manifesta e prende corpo. Un romanzo da leggere improvvisando, come fa un jazzista sul canovaccio di uno standard.

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