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Rodopi tra fiaba, favola e Storia

Per ragioni che probabilmente sfuggirebbero a qualsiasi essere supremo alla cognizione umana, la protagonista di una fiaba deve sempre possedere un privilegio di nascita per convenzione sociale: per questo le principesse sono le più quotate. Una volta, con la fiaba era possibile rendere credibili le motivazioni spirituali per cui alcuni beneficiavano di privilegi terreni a dispetto di altri e, di conseguenza, giustificare tutti i soprusi che i privilegiati commettevano sul popolo. Al contrario di questo curioso strumento di potere, la favola ha sempre trattato le realtà più disparate, spesso umili e, addirittura, in difficoltà nel far valere i propri diritti naturali: come le principesse per le fiabe, i favoriti per le favole sono gli animali. Regnanti, ricchi e nobili ci sono, ma spesso accostati alla prepotenza; inoltre, la favola non segue il diktat del “vissero per sempre felici e contenti” ma la necessità di una morale, anche metaforica, purché l’uditore possa rammentare l’insegnamento. Se da un lato la favola è di autentica estrazione popolare e intelligente, la fiaba è una forzatura dell’immaginario popolare. Insomma, la favola sta a Super Quark come la fiaba sta all’Isola dei Famosi e, come i programmi televisivi di gossip, tende a far apparire un ricco e potente simile nelle virtù a un povero e vessato. Attenzione: qualche fiaba in cui il protagonista è povero esiste, ma spesso si tratta di narrazioni d’origine orientale la cui identità non è stata del tutto “stuprata” dal mondo occidentale come, ad esempio, Alì Babà e i quaranta ladroni de Le mille e una notte; ma, anche quando il protagonista di una fiaba è povero, sicuramente è bello dalla nascita, dando un messaggio ancora più contorto del precedente: anche il povero può avere successo nella vita, basta che detenga un privilegio immeritato dalla nascita, proprio come i regnanti e i nobili. E di questa contro-morale, in effetti, i programmi televisivi di gossip ne hanno fatto un emblema. Ecco perché Il brutto anatroccolo ha la struttura di una favola – catalogata spesso come fiaba poiché raccolta da Handersen e con un tipico lieto fine – e Biancaneve e i sette nani la struttura di una fiaba; tuttavia, entrambe le narrazioni provengono dalle leggende e dai racconti orali tramandati per secoli e, spesso, risalenti a storie vere.

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Una fiaba di origine leggendaria molto nota, con una verità storica che avrebbe potuto anche assumere una morale e divenire una favola, segue da millenni delle parole chiave ben precise: serva, sorellastre, scarpetta, ballo. Le ultime tracce di questa storia risalgono al 1950, in cui il geniale Walt Disney narra di una nobildonna bella e trattata come una serva da una matrigna e delle sorellastre brutte e cattive; grazie a una fata la nobildonna bella si imbuca a un ballo dove conosce il principe bello, perde una scarpetta – probabilmente bella anche lei – fuggendo a mezzanotte e il principe la ritrova dopo aver fatto provare quella scarpetta a tutte le fanciulle del regno. Ovviamente, si sposano. Si spera abbiano lavato la scarpetta. Esclusi i topi che ballano e cantano – la Disney è sempre stata maestra nella trasposizione favolistica degli animali – la storia è pressoché identica a quella narrata dai Fratelli Grimm nel diciannovesimo secolo e molto simile a quella di Perrault del 1671. Eppure sono sufficienti trentacinque anni perché la storia assuma delle differenze notevoli: ne Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, 1634, la protagonista del “cunto” La gatta cennerentola si chiama Zezolla ed è una serva bella che perde la scarpetta presso un principe bello che la sposa, ma uccide la matrigna brutta e cattiva. In sostanza, nella versione del Basile la protagonista, oltre a non chiamarsi più Cenerentola, sarà pure bella ma mica tanto scrupolosa; soprattutto, la protagonista non è più nobile. Basile ha il grande merito di aver riportato una narrazione a lui pervenuta in chissà quale forma, dato che la traccia più vicina alla sua risale a millequattrocento anni prima, attorno al 200 d.C., dalle fonti di Claudio Eliano. La protagonista si chiama Rodopi ed è una etere, ossia una cortigiana dell’Antico Egitto, vessata da due “colleghe” sorelle che fanno comunella. Un giorno, mentre Rodopi si fa il bagno, Horus assume le sembianze di un falcone, le ruba un sandalo e lo lancia in testa al faraone Amasi. Quest’ultimo, anziché bestemmiare per il colpo, coglie la scarpata in testa come un segno del destino e decide di andare a cercare la titolare del sandalo per sposarla. Con Claudio Eliano è presente un primo riferimento storico: Amasi, infatti, è stato l’ultimo faraone della XXVI dinastia, collocata storicamente dal 672 al 525 a.C. . La narrazione precedente è di Strabone, attorno al 30 a.C., che attribuisce a Rodopi origini trace, elevata a etere per la sua bellezza. Quindi, la protagonista è schiava, straniera ma bella. Ancora resiste la bellezza, malgrado i millenni; anche se non è chiaramente paragonabile al concetto occidentale e contemporaneo di bellezza, quest’ultimo requisito che dà a Rodopi l’accesso al club dei protagonisti delle fiabe è sfatato – e mai termine fu più azzeccato – ad opera di Erodoto, attorno al 450 a.C., nella prima fonte che tratta accuratamente il “caso Rodopi”, allora molto più popolare di oggi. Infatti, le testimonianze storiche concordano che il faraone Amasi sposò una schiava; questo fatto andò a congiungersi con quello di una schiava che riuscì ad affrancarsi grazie alle sue capacità di seduzione, conosciuta come Rodopi. Secondo Erodoto, Rodopi era una schiava di origini trace che fu liberata da un commerciante di vino residente a Lesbo, un tale Carasso di Mitilene. Nell’eterno gioco del mescolare i racconti e i personaggi, Carasso era nientemeno che il fratello di Saffo, e per liberare Rodopi pagò talmente tanto da “perdere il pudore”; fu proprio Saffo ad accusare Rodopi di essere una seduttrice. È chiaro che la narrazione di Erodoto non può avere grande spessore di veridicità storica, ma l’intento era di sfatare il mito della bella schiava divenuta sposa del faraone per volontà degli dei, perché ai suoi tempi aleggiava addirittura la leggenda che fosse stata Rodopi a far erigere la piramide di Micerino, tanto era decantata la sua ricchezza e il suo potere; infatti, Erodoto dichiara esplicitamente che Rodopi era ricca, ma mica tanto da far costruire una piramide. Un’altra fonte popolare antichissima narra di una schiava tracia, Rodopi, che entrò nelle grazie del suo padrone grazie alle capacità di seduzione e di ballo, ma venne anche invidiata e disprezzata dalle altre schiave. Come il padrone, tanti erano innamorati di Rodopi e uno di questi, certamente una figura singolare, le fece trovare delle scarpette forgiate dall’oro rosso. Quando il faraone Amasi convocò un grande ballo a Menfi, il padrone di casa voleva mandare Rodopi alla festa, ma la schiava più anziana le diede così tanti incarichi da impedirle di potersi preparare; dunque, Horus assunse le sembianze di un falcone per rubarle una scarpetta e lanciargliela in testa al faraone. Anche in questa versione, il faraone non bestemmiò e anzi si lanciò alla ricerca della fanciulla a cui apparteneva una scarpa così particolare, trovando Rodopi e sposandola. La differenza sostanziale in questa narrazione ha una natura esoterica: lavorare l’oro rosso ha un richiamo fortemente alchemico e il faraone, personificazione degli dei, doveva svolgere costantemente dei riti di natura mistica. Quale compagna migliore, per un faraone, di una donna che conoscesse un rituale alchemico? In verità non era certo Rodopi la persona “iniziata”, ma quest’innamorato misterioso di cui non abbiamo tracce. Un ultimo dato secondo cui gli storici concordano, è che Rodopi avesse svolto servizio presso lo stesso padrone di uno schiavo che riuscì a evitare i lavori pesanti grazie alle sue capacità di affabulatore, raccontando storie simili a questa, con tanto di riferimenti esoterici propri della tradizione acquisita successivamente da Apuleio: Esopo. Il celeberrimo affabulatore, come il più contemporaneo Cyrano de Bergerac, era un grande comunicatore anche per compensare la sua sensazione di bruttezza. Se si volesse giocare come Erodoto ha fatto con Saffo e Rodopi, se si volessero unire le storie del Cyrano de Bergerac e di Esopo, sarebbe possibile ipotizzare che l’affabulatore si vergognasse a tal punto della sua bruttezza da non rivelare il proprio amore a Ro – dopi/ssana? E di conseguenza, giocando a suo favore solo l’arguzia, l’intelligenza e la sensibilità di un artista, sarebbe possibile ipotizzare che avrebbe forgiato delle scarpette rosse conoscendo la passione della sua amata per il ballo? E ancora: sarebbe possibile che in qualche modo avrebbe fatto raggiungere la notizia della scarpa alchemica nella testa del faraone metaforicamente affinché quest’ultimo si interessasse del caso e potesse liberarla? E se ciò fosse avvenuto, se Esopo avesse raggiunto il proprio obiettivo, non aspettandosi però che il faraone venisse successivamente sedotto dalla stessa Rodopi? Come ultima riflessione, è d’aiuto un dato storico: Esopo morì partecipando a una ribellione a Menfi, appena affrancatosi dal suo padrone. Sarebbe possibile sostenere che Esopo, dopo una vita in cui è stato in grado di risparmiarsi ogni fatica o pericolo, abbia deciso di andare a morire con il suo amore mai coronato? L’ardua immaginazione alla realizzazione della prossima versione di questa storia meravigliosa, a patto che i protagonisti stavolta siano poveri, non belli, intelligenti, sensibili, eroici: insomma, che abbiano l’unica vera bellezza che, come ci insegna la Cabala Ebraica con Tipheret, è solo il fulcro della via del cuore.

 

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