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Filippo Argenti, da Dante a Caparezza – seconda parte

Nel precedente articolo, è stato analizzato l’episodio narrato dal Canto VIII della Divina Commedia, dedicato agli iracondi e agli accidiosi. Il protagonista è Filippo Argenti, vicino di casa di Dante che le prende di santa ragione da parte di un poeta solito a svenire o piangere appresso al dannato di turno, di certo non a suscitare risse. Ben più curioso è il coinvolgimento di Virgilio, che approva la condotta di Dante e partecipa alla breve colluttazione prima di lasciare quello strazio agli iracondi, presi ad assalire il dannato in un vero e proprio linciaggio. Eppure, Filippo Argenti si limita ad aggrapparsi alla barca di Flegias, il demone che scorta i due “visitatori” dell’Inferno per la palude dello Stige, e presentarsi come un che piango.

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Riassumendo i fatti come un breve, indegno e fantasioso verbale:

In prossimità della palude Stige, l’imbarcazione intestata al demone Flegias scortava i visitatori occasionali Marone Publio Virgilio e Alighieri Dante per condurli presso la città infernale Dite, allorché il dannato Cavicciuoli Filippo inteso Argenti si affacciava a volto coperto – dal fango – e l’Alighieri lo provocava. Si ipotizza una breve colluttazione tra quest’ultimo e l’Argenti, per cui interveniva il Virgilio (così inteso per sua gentile richiesta di non denominarlo “il Marone”) lo respingeva con forza recando offese verbali a tutti i dannati presenti i quali, anch’essi a volto coperto dal fango, adoperavano il tentativo di linciaggio sullo stesso Argenti, identificato dalle urla di incitazione degli stessi dannati. I due visitatori non sono stati fermati al momento dei fatti e, in seguito alla dipartita dell’unico testimone oculare all’epoca vivente – l’Alighieri – non è possibile riscontrare una versione differente. Non è stata sporta alcuna denuncia, tuttavia è significativo rilevare che all’Argenti siano imputabili reati penali per delitto di lesione personale e rissa ai sensi degli artt. 582 e 588 c.p. con l’aggravante del coinvolgimento dell’Alighieri, di comprovata precarietà dello stato di salute in quanto soggetto a frequenti svenimenti e crolli emotivi, nonché l’attenuante per il comprovato stato d’ira dell’Argenti e le circostanze di provocazione cagionate dall’Alighieri ai sensi dell’art. 599 c.p. e illeciti civili ex artt. 2043 e ss. .

Ironia a parte, è opportuno analizzare storicamente il profilo del personaggio storico che, in effetti, ha un curriculum degno della collocazione dantesca: Filippo Cavicciuoli era soprannominato “Argenti” per il vezzo di ferrare il proprio cavallo con zoccoli d’argento, e non era l’unica bizzarria che commetteva. Come se volesse attaccare briga a tutti i costi, si divertiva a cavalcare per le strade di Firenze tenendo le gambe ben aperte, in modo da prendere a calci in faccia i passanti; questi presentarono un esposto al Comune, dove già era in corso un processo contro l’Argenti per un caso di corruzione politica e per cui avevano chiamato Dante a testimoniare, in quanto suo vicino di casa. Probabilmente per questa ragione l’Argenti schiaffeggiò Dante pubblicamente e, secondo alcune fonti, si impossessò di diversi beni del poeta in seguito al suo esilio. Da quest’ultimo aneddoto Giovanni Boccaccio avanzò la sua personale tesi sulla Divina Commedia, ancora oggetto di dibattito tra gli studiosi di tutto il mondo, secondo cui la stesura dell’opera sarebbe stata interrotta per via dell’esilio e ripresa solo successivamente, motivando così anche il curioso seguitando del primo verso con cui Dante apre il canto, come a indicare qualcosa che è stata sospesa e “seguita” tempo dopo. La tesi di Boccaccio ha validi fondamenti nelle “profezie” dei personaggi successivi al Canto VIII, che tratterebbero fatti avvenuti durante l’esilio, oltre alla ragionevole considerazione che se Dante avesse collocato all’Inferno un uomo che era ancora vivo nella realtà si tratterebbe dell’unico caso in tutta la Divina Commedia dato che, come dimostrerebbe l’appropriazione dei beni, l’Argenti sarebbe morto solo dopo l’esilio; anche se, in verità, le dinamiche dell’episodio si rivelano talmente inconsuete che tutto è ipotizzabile, anche che Dante abbia collocato all’Inferno un vivo e renderlo personaggio tutt’altro che secondario e fin troppo trascurato, talmente popolare che lo stesso Boccaccio lo ha reso protagonista di una novella del Decameron in cui viene dipinto come un fiorentino noto per la condotta collerica che spesso sfociava in violenza.

Insomma: le circostanze dantesche che coinvolgono Filippo Argenti meriterebbero uno studio accademico maggiormente diffuso e più approfondito. L’analisi svolta in quest’articolo e nel precedente è stata condotta volutamente con una chiave di lettura tutt’altro che accademica, e non è la prima attenzione appassionata all’episodio dantesco dell’Argenti. Un artista contemporaneo di indiscutibile valore, evidentemente lettore geniale della Divina Commedia, ha dedicato una canzone all’Argenti nel suo album Museica (2014), ribaltando il punto di vista e offrendo la voce al dannato perché possa rivolgersi a Dante senza interruzioni.

[…] Non sei divino, individuo, Se t’individuo ti divido! È inutile che decanti l’amante, Dante, Provochi solo cali di libido. […] Attaccare me non ti redime, Eri tu che davi direttive Per annichilire ogni ghibellino, Cerchio sette, giro primo. “Fatti non foste per viver come bruti”, ben detta, Ma sputi vendetta dalla bacchetta di Flegias,

Complimenti per la regia!

 Argenti vive, vive, vivrà, Alla gente piace la mia ferocità, Persino tu che mi anneghi a furia di calci sui denti Ti chiami Dante Alighieri ma somigli negli atteggiamenti A Filippo Argenti! Poeta, tu mostri lo sdegno, – A Filippo Argenti! Ma tutti consacrano questo regno! – A Filippo Argenti! Le tue terzine sono carta straccia, Le mie cinquine sulla tua faccia Lasciano il segno. […] Anche gli alberi sgomitano per un po’ di sole, Il resto sono solo inutili belle parole! Sono sicuro che in futuro le giovani menti Saranno come l’Argenti E l’arte porterà il mio nome: Filippo Argenti! 

La canzone Argenti vive di Caparezza offre una chiave di lettura senz’altro interessante: il contesto è analizzato dal punto di vista del dannato, un’idea che solo un artista dotato di grande sensibilità avrebbe potuto immaginare, oltre che sorprendente per l’alto contributo culturale offerto alla società contemporanea con una canzone che è possibile azzardare, valutando le sorti della civiltà negli ultimissimi anni, profetica quasi quanto le parole pronunciate dalle anime dantesche.

Quivi lasciammo, che più non ne narro. (Dante Alighieri)

Lo lasciammo là, nella palude. Non vi racconto altro. (Caparezza)

 

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