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Considerazioni storiche e antropologiche sull’anarchia di Roberto Disma

Se le cronache riportano un episodio di bullismo o indisciplina da parte degli alunni contro i docenti, qualcuno sfodera puntualmente il termine “anarchia”; se qualche politico deve accusare la fazione rivale di disorganizzazione, ricorre al termine “anarchia”. Insomma: oggi è più che mai abusato questo termine, inteso come disordine, caos, confusione, attribuito ad ogni circostanza con accezione negativa. In ogni ambito, il termine “anarchia” al giorno d’oggi è utilizzato in modo che figure come Michail Bakunin e Pierre Joseph Proudhon possano rivoltarsi nella tomba. Eppure, il travisamento del termine non è questione recente, come dimostra il saggio “L’Anarchia” di Errico Malatesta, datato 1920:

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La parola anarchia era presa universalmente nel senso di disordine, confusione; ed è ancor oggi adoperata in tal senso dalle masse ignare e dagli avversari interessati a svisare la verità.

 Malatesta, uno dei più grandi teorici dell’anarchia, espone nel saggio un punto di vista storico e ricco di metafore molto utili a comprendere il fenomeno. Tra queste: si immagini un uomo a cui, sin dalla nascita, sono stati legati mani e piedi. Senza un margine di confronto esterno a sé, l’uomo cresce con questo deficit assolutamente artificiale e non può riconoscerlo tale; sviluppa la crescita incapace di correre o battere le mani, ad esempio, ma lui non è consapevole della libertà di cui potrebbe usufruire se si liberasse e, anzi, è certamente spaventato dall’idea che i nodi possano allentarsi per il disequilibrio che causerebbe nel suo modo abituale di muoversi. È sufficiente sostituire i nodi con il governo, l’autorità costituita, e l’uomo con il popolo: quest’ultimo è talmente abituato dalla presenza del potere costituito da ritenerlo essenziale, senza rendersi conto che moltissime azioni quotidiane le esercita senza alcuna legge scritta e di comune accordo in tutto il mondo, assecondando un principio naturale di responsabilizzazione. Inoltre, al popolo sfugge la semplicissima considerazione che maggiore è la forza del potere costituito e maggiori sono le restrizioni, sino a sfociare nei regimi totalitari dove persino la parola subisce limitazioni, pur essendo uno degli strumenti più liberi dell’uomo. Anche questa considerazione sfugge: più uno strumento è naturale – e, per i religiosi, vicino alla manifestazione del divino – più è libero.

Da queste considerazioni è facile comprendere che l’anarchia non ha nulla a che vedere con la confusione, può essere definita piuttosto una corrente di pensiero che auspica nell’instaurazione un ordine naturale tra gli esseri umani, secondo un principio di responsabilità condivisa che riconosca l’inutilità di costituire un potere delegato. È chiaro che il principio assume una connotazione utopica, più filosofica che politica in senso pratico; per questa ragione non può esistere un partito o un movimento anarchico che rispetti nella sua pienezza questo termine. Eppure gli anarchici dimostrano una grande concretezza anche in politica e, la Storia lo testimonia, sono stati i fautori della tanto agognata Repubblica. Lo stesso Malatesta ritiene che oggi chi considera irrealizzabile l’anarchia, ieri riteneva irrealizzabile la Repubblica. Infatti, fino alla prima metà dell’Ottocento, i termini “anarchico” e “repubblicano” erano comunemente considerati sinonimi, come suggerisce Pierre Joseph Proudhon nel suo Che cos’è la proprietà?, pubblicato nel 1840.

Quale forma di governo preferiremo? Eh! Potete ben chiederlo, risponde senza dubbio qualcuno dei miei lettori più giovani:

– Sei un repubblicano.

– Repubblicano, sì. Ma non significa nulla. Res publica, la cosa pubblica. Chiunque si interessi alla cosa pubblica può definirsi repubblicano. Anche i re sono repubblicani.

– Bene! Quindi sei un democratico?

– No.

– Cosa? Forse un monarchico?

– No.

– Costituzionalista?

– Dio non voglia!

– Vorresti una forma di governo mista?

– Meno che mai.

– E allora cosa sei?

– Un anarchico.

– Ah, capisco. Sei ironico.

– Assolutamente no. Ti sto dando la mia seria e ponderata professione di fede. Sebbene un fervente sostenitore dell’ordine, io sono nel più forte significato del termine, un anarchico.

 

L’anarchico non è solo fautore della Repubblica, ma anche dell’indirizzo politico che l’ha garantita: il libertarismo. Nella forma più autentica del termine, il libertario sostiene una politica di graduale abolizione delle restrizioni e delle misure coercitive previste dalle leggi dello Stato per innescare il processo di libera responsabilizzazione tra cittadini. L’obiettivo finale non può che essere l’instaurazione del Socialismo, nell’abbattimento di ogni oppressione e disuguaglianza.

Insomma: l’anarchia è un pensiero che pone nella Società i principi cardine di Libertà e Uguaglianza, rigorosamente disposti in questo ordine di priorità. Per questa ragione, anarchia e comunismo sono due pensieri distanti ma facilmente paragonabili; entrambi puntano all’abbattimento del capitalismo e a una società libera e uguale per tutti, ma i percorsi intrapresi per l’attuazione di questa utopia sono completamente diversi. Inoltre, la Storia insegna che per gli anarchici l’instaurazione della libertà deve precedere quella dell’uguaglianza, per i comunisti la libertà non è raggiungibile se prima non si instaura l’uguaglianza; ecco perché gli anarchici rigettano in misura netta l’idea della dittatura proletaria ma sostengono la lotta di classe.

Secondo gli anarchici, il potere è una devianza perché si insinua nella società adoperando una condotta opposta al principio che sostiene, ed è opportuno un esempio per spiegarlo meglio. Si immagini la presenza di lupi nei pressi di un villaggio e un uomo ignorante che intende prendere il potere, a prescindere dall’effettiva pericolosità degli animali, alimenta la paura nei loro confronti. Privo di scrupoli, può ricorrere all’omicidio di alcuni abitanti per incolpare i lupi e accrescere la credibilità della propria tesi, ma spesso è sufficiente gonfiare qualche episodio isolato di aggressione e distorcerlo esclusivamente a proprio beneficio. Dunque, innesca una propaganda che individua nel lupo un nemico e propone immediatamente una soluzione, ad esempio delle agevolazioni per i cacciatori. La conseguenza sarà una guerra ingiustificata tra lupi e uomini che garantirà all’uomo ignorante una poltrona retta sulla venerazione da parte degli abitanti in proporzione a quanta paura avranno dei lupi e all’abitudine di convivere con questa paura. In origine non era certo necessario l’esercizio di un potere contro i lupi, è stato inventato e introdotto assieme al principio di oppressione che, secondo gli anarchici, è parte integrante del sistema capitalista per questa ragione. Filosoficamente è innegabile che uno Stato fondato sulla prepotenza non può che generare criminali: ecco come il cerchio su cui si fonda il pensiero anarchico si chiude. Se la Società fosse basata sulla Libertà e l’Uguaglianza, qualsiasi atto criminale sarebbe considerato alla stregua dell’autolesionismo.

Con questo principio di causa effetto gli anarchici ritengono inevitabile la realizzazione dell’utopia e, per darne un’attiva e coerente dimostrazione, nel periodo storico a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento proliferarono attentati contro rappresentanti dell’autorità e del potere in tutta Europa, portando avanti la cosiddetta “Propaganda del fatto”. Un esempio fra tutti fu l’attentato avvenuto a Monza il 29 luglio 1900 ad opera di Gaetano Bresci contro il re d’Italia Umberto I. Per la prima metà del 1898, da gennaio a luglio, i moti popolari diffusi in tutta la penisola furono sedati dalla sanguinaria repressione del generale Bava Beccaris, decorato dal re per aver massacrato la popolazione manifestante. Questa è la causa per cui l’anarchico Bresci uccise platealmente il sovrano due anni dopo. Segue una dichiarazione importante dell’anarchico durante il processo:

 Non ammazzai Umberto, ammazzai il re! Ammazzai un principio! Non chiamatelo delitto, ma fatto!

Un principio, un simbolo, un dogma. Il re era l’idolo del potere, il suo intoccabile rappresentante, ecco perché la sua eliminazione garantiva quantomeno una ferita al simbolo stesso e tutt’altro che simbolica, come spiega la celebre considerazione riportata nel libro Il sole dell’avvenire. Chi ha del ferro ha del pane di Valerio Evangelisti:

Non avete notato che da quando Bresci ha sparato al re, di stragi non ce ne sono più state? Quando hanno paura loro, abbiamo meno paura noi.

Essendo un principio di causa (le stragi di Bava Beccaris) effetto (l’omicidio di Umberto I), l’attentato al re non è che un “fatto” per gli anarchici, così come sono considerati fatti tutti le reazioni che incalzarono in quel periodo in nome della giustizia proletaria, citando La locomotiva di Francesco Guccini. E nonostante la “Propaganda del fatto” sia più clamorosa di altri atti ben più pacifici, la maggior parte degli anarchici non sono attentatori e non aspirano ad esserlo, compresi i già citati Errico Malatesta, Michail Bakunin e, ancora, Emma Goldman, Pierre Joseph Proudhon, Fernando Pessoa, Lev Tolstoj; ma anche i più recenti e nostrani Pier Paolo Pasolini, Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini e persino Giorgio Gaber che, per sdrammatizzare, si definiva “anarcoide”. Proprio quest’ultimo, in virtù di tanti studi e teorie condotte sull’anarchia, ha saputo racchiuderne il significato in una delle sue canzoni più note:

La libertà non è star sopra un albero,

Non è neanche il volo di un moscone,

La libertà non è uno spazio libero,

Libertà è partecipazione.

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