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Il mio lungo rapporto con Buster Keaton

(di Francesco Cusa) Per questioni insondabili, che non possono essere giustificate o debitamente risolte con la passione e le ragioni dell’opportunità, mi sono ritrovato ad avere a che fare – misticamente – con Buster Keaton, e in particolare con il film “Sherlock Jr.”. Ne ho tratto un progetto, commissionatomi lustri orsono non so più neanch’io da chi, che ho denominato “Solomovie”, con il dichiarato intento di rievocare una strampalata versione dell’originario accompagnamento, un tempo affidato al pianoforte e qui riproposto con la batteria. Un rapporto “intimo” dunque, a due, un confronto tra me e Buster, una sfida del ritmo tra tamburi, piatti, piroette e inseguimenti. Mi sono avvalso di una sorta di colonna sonora, concepita con droni musicali e varie miscele di brani sovrapposti (jazz, rock, pop), di una “base” insomma, che ho composto e poi montato in sincrono con il film, ciò per garantire una variabilità musicale che mi aiutasse a superare i naturali limiti legati al mio strumento. Un insieme pirotecnico, didascalico, volto a spettacolarizzare ancor di più le funamboliche gesta di Keaton, grazie alla scelta di un approccio quasi drum’n‘bass deil’accompagnamento percussivo.
Questa la necessaria premessa.

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Man mano che procedevo con le repliche, durante l’iterazione delle performance dal vivo, riproposte per i più disparati contesti (ricordo un romantico tour verso la fine degli anni Novanta, da Budapest fino a Travnik – dall’Ungheria alla Bosnia e poi ancora all’Italia – in Fiat Uno rossa, solo e con lo spettro di Buster sul sedile del passeggero), nelle progressive sonorizzazioni dello stesso film, cominciarono a farsi tangibili alcuni dettagli occulti. Il volto di Buster Keaton – vero e proprio mandala, – non era affatto immutabile; cangiava in maniera sottile, era il divenire silenzioso della mutazione, il cambiamento che segue le regole impercettibili della deriva dei continenti; era tutto fuorché posa, immagine d’un volto pietrificato. Nella nitidezza della pellicola restaurata, man mano che procedevo con gli spettacoli, replica dopo replica , vivere la maschera dell’attore diventava sempre più esperienza sinestetica, vivida, attuale.
– Il volto di Buster Keaton non è paradossalmente rappresentabile, sfugge da ogni parte, è un lago apparentemente calmo in cui confluiscono le turbe di torrenti e affluenti.
Questo appuntavo sul mio diario di viaggio di quei giorni.
Ora, un conto è guardare un film anche più volte in qualità di spettatori, un altro è suonarci dentro, viverne lo stato di trance costante, di tensione dialettica. Il ripetersi – per me – ciclico dello stesso film, con la variabile unica delle mie improvvisazioni allo strumento, rappresentava la quintessenza dell’iterazione, qualcosa che sfuggiva alla morsa del “ready made”, al banale gioco delle permutazioni visive. Mi trovavo insomma in relazione con un’incarnazione visiva del volto di Kali, con un’icona che nega paradossalmente se stessa tramite un segnale illusorio, semanticamente ambiguo.
“Ceci n’est pas Buster Keaton”.
La stessa cosa non può dirsi di Chaplin. Riconoscendo il futuro, abbracciando la tecnologia, Chaplin, di fatto, uccide una certa idea di cinema, ne violenta in qualche modo il mito, ne seziona hegelianamente il cadavere e non esita a intraprendere il viaggio, varcando le Colonne d’Ercole del Sonoro. Il nuovo Frankenstein Parlante piace molto poco, viceversa, a Keaton, che non necessita di questo passage à l’acte, essendo egli stesso incarnazione “mayca” della quintessenza cinematografica (attore, regista, sceneggiatore, stuntman ecc.).

Nel film “Sherlock Jr.”, Keaton si interroga sulla stessa natura del cinema, mette in scena, come in certi quadri di Escher, il paradosso e usa la camera come scandaglio delle profondità ctonie dell’essere, sperimentando effetti speciali e utilizzando la tecnica della mise en abyme in maniera pregevole. In breve, egli rimane prigioniero del sogno, della catarsi delle sue ambasce amorose, che si riveleranno poi, nello straordinario e attualissimo finale, altrettanto angoscianti dopo l’apparente “happy end”. Per dirla con Deleuze, Se siete intrappolati nel sogno dell’altro, siete fottuti. E qui l’Altro è lo stesso Keaton, Sua Maestà il Cinema in persona, ma anche il sottoscritto, sorta di Spettatore Attivo, manipolatore blasfemo di una colonna sonora volutamente contemporanea, in contrasto, la batteria essendo veicolo tribale, tamburo OGM modificato dal sincretismo coatto.
Ero dunque un eretico? Un blasfemo? E quelle occhiatacce di Buster Keaton, apparentemente neutre, erano rivolte a me? Al corruttore della purezza della sua opera? Chi può realmente dirlo. So per certo che in certi frangenti del giorno, mi ritrovavo a camminare come “lui”, con le gestualità “sue”, per non dir della notte, quando sognavo di correre sopra i treni e di lanciarmi dal tetto della casa, afferrando la sbarra del passaggio a livello, come nella famosa scena dell’inseguimento. Talora il volto di Keaton mi appariva come la superficie lunare, sinaptico adattamento della Luna di Méliès, e io ero un viaggiatore spaziale diretto sul satellite. Ma il mio non era tanto un allunaggio, quanto piuttosto un precipitare sordo verso le porosità della maschera, che si facevan voragini e crateri, bianco lucore e poi tenebra oscura che mi risucchiava, fintantoché non mi svegliavo all’urlo ossessivo della parola: “Pareidolia! Pareidolia!”.
Cosa è vero? Cosa è Reale?
Negli attuali videogames, il Player (maiuscolo) è l’unico a confutare il “game over”. Egli, l’Onnipotente, l’Osservatore, il “facitore” di una trama che è stata concepita da altre menti, è il detentore di un’investitura, l’“Onnisciente Relativo”, e a tali margini di consapevolezza (ovviamente parziale), non può giungere il protagonista della trama, l’eroe, il quale vive la tragedia del suo proprio mondo, simultaneamente a tanti altri Sé. In altre parole il protagonista del gioco sperimenta la morte ogni volta, come se fosse la prima, unica, definitiva fine. Ovviamente tutto ciò, la simultaneità degli universi paralleli dei players (chessò, tutti i “moonoliti Playstation” in cui si sta giocando in questo preciso istante lo stesso gioco con sviluppi di trama infiniti e cangianti), costituisce il paradigma di ciò che potrebbe essere “il Sistema”, la rete di demiurghi che determinano le sorti dei protagonisti di ogni singolo gioco.
In definitiva, siamo mortali dal punto di vista corporeo, ma essenzialmente indistruttibili dal punto di vista della coscienza: una fuga indefinita verso diversi gradi percettivi di consapevolezza.
Nei rispetti del cinema, quella di Keaton è una “morte assoluta”, naturale, come può esserlo ogni fine che non sia celebrazione e parvenza di rito, o meglio, per tornare al paradigma di cui sopra, in antitesi alle morti di Willy il Coyote, eterne rispetto ai tranelli che tende a Be Beep. Nella sua pura essenza di cinema, Keaton è paradossale sottrazione visiva che sfugge alla simbolizzazione, pareidolia di una maschera, rottura del ciclo delle iterazioni, del samsara, moksha e definitiva liberazione. E se Buster Keaton in questo suo rifiuto, in questo suo disagio introspettivo, avesse intimamente negato lo sguardo al futuro? Se ne avesse preconizzato inconsciamente le istanze e avesse tirato i remi in barca proprio per tutelare una peculiare identità di cinema, di arte, di purezza che riverbera abbacinante fino ad oggi? Rito, iniziazione? Mi piace pensarlo, o quantomeno teorizzarlo ai fini di questo piccolo saggio. La morte assoluta è già annunciata nel gioco di inganni in “Sherlock Jr.”, tramite l’illusorio repertorio di specchi che delimita la realtà dal sogno, e che finisce col negare la rappresentazione, o meglio la sua storicizzazione; è un film limite, assoluto: oltre non si può andare, pena l’oblio. E’ come se Keaton avesse posto i germi della fine stessa del cinema in nuce, lo sguardo introspettivo, intimo, rivolto al Sé, come a rendere “manifesto” l’indicibile, farsesca la concettualizzazione simbolica.
E io che guardavo. E io che suonavo. Insomma che diavolo ci facevo lì?
La stanza congelata in un esperimento di PNL. Si può spostare a piacimento la macchina da presa nello scenario immobile. Sono l’osservatore neutrale della mia performance. Eccolo lì lo schermo, la faccia immanente di Keaton, e poi “quel me” di profilo, nell’atto del prodursi, in un gesto antico, congelato: la mano destra che sta per abbattersi sul “crash”, la sinistra sul rullante, la schiena leggermente curvata a sinistra. Questo “point de capiton” (come lo definirebbe Lacan), comunica una “verità” che non posso argomentare, ma che posso vivere esclusivamente come esperienza cinestetica, non esplicabile. La frase che può avvicinarsi a questo campo percettivo della mia coscienza è la seguente: “il cinema di Keaton non è un cinema apodittico. Può anche apparire come tale, ma tale prospettiva sarà sempre fuorviante, perennemente ingannatoria, ambigua”.
Mi viene in mente anche un altro parallelismo: ne l’ “Armata dei Sonnambuli” di Wu Ming, la rappresentazione dell’immaginario della Francia post-rivoluzionaria è posta in una prospettiva paradossalmente a-storica, immanente, ciò proprio grazie al gioco di ri-attualizzazione di quelle vicende, alla miscela di vero e verosimile, all’inganno della teatralizzazione. In “Sherlock Jr.”, accade la stessa cosa: Keaton mette in scena la parodia dell’immaginario americano degli anni venti del secolo scorso e ne modifica geneticamente il contesto, la sua effettualità; grazie alla sua maschera, spettro alienato che cattura magneticamente la realtà e la centrifuga, egli determina un’alterità sublime alle emozioni, al gioco perenne della gioia e del dolore, finendo col distorcere la natura stessa del quotidiano. Inoltre, egli rischia letteralmente la vita nel suo cinema, mette a dura prova le sue qualità di stuntman, e spesso la fa franca per una questione di centimetri (cosa del resto comune a molti attori dell’epoca). Ma in gioco non c’è solo la (sua) morte “relativa” del corpo, bensì quella “assoluta” e sadiana dell’anima, lo scardinamento della legge dell’eterno ritorno, a sua volta figlio di una dualità, dell’eclissi del muto e della nascita del sonoro. I vagiti del neonato, le urla del pargolo (frutto dell’unione tanto bramata) che caratterizzano il finale di “Sherlock Jr.”, sono il grido silente di una liturgia che si celebra nel silenzio siderale delle pellicole, il vero urlo di Munch del cinema muto.

E dunque?
Ripetere la sonorizzazione del suo film era per me, alla fin fine, mimare l’esistenza, una perenne palingenesi, l’atto primo, unico, mai nato, la deriva illimitata del pixel, o per dirla con Antonio Banfi: era la “Vita dell’arte”. Tuttavia, ogni mio gesto, ogni atto musicale, perfino la base sonora che avevo montato in precedenza, andava a collocarsi su un piano retroattivo, fatale, in una sorta di territorio neutro che precede l’effettuale, la realtà pulsante e materica, condannandomi a un perenne déjà-vu. E così ogni rullata, ogni frizzar di charleston erano già contemplati, erano il soggetto assoluto hegeliano, l’espressione che generava l’essenza infinita di Keaton; egli mi era Demiurgo e ogni mio spasmo viveva nel (del) suo cinema, della forza carismatica del suo volto. Non potevo che fare quel che facevo, a ogni replica, inevitabilmente, in qualità di marionetta, suddito e officiante al servizio di una causa. Percorrevo un solco già scavato, sovrascrivevo una storia, la mia/sua narrazione, vivevo la mia pura formalità, l’esser agìto, mosso, scosso, tratto, concepito come l’interprete, il funzionario posto al di qua della cornice, del luogo topico.. E quel mondo non era il mio; vi ero ammesso in qualità d’intruso, d’arrogante viaggiatore temporale alle prese con la modifica del passato e vanamente teso alla reificazione del sacro. Maculare d’attualità il mistero dell’affabulazione: quale ingenua follia! Che atto ridicolo di provinciale alchimia!
Tutto è già accaduto.
Dovetti smettere, abbandonare il progetto. Keaton aveva preso a tormentare anche le mie notti, con quegli occhi da Kalì, tutto falci e coltelli, ed era fermamente intenzionato a tagliarmi la gola e a recidere il mio capo. Ricordo un incubo fra tutti: Buster Keaton domina una sorta di Golgota, il cielo è plumbeo, dietro le tre croci. La camera si produce in un lentissimo piano sequenza che culmina nella mia testa fra i lampi, retta dalla mano gigantesca del di Sherlock Jr… Keaton è severo, è una divinità del Tremendo. Le sue sclerotiche sono rosse e i suoi movimenti lenti, muliebri, come quelli degli attori del teatro kabuki. Poi il coltello cala come una mannaia… lampi e ancora lampi.
Egli ’è gigantesco, più alto delle montagne e il suo cappello sfiora il cielo.
Apre le sue fauci e divora il mio corpo e quel che ne resta, come un novello Crono.
Essere masticati da Keaton. Vivere il cinema. Essere nella pancia del cinema. Essere l’essenza del cinema.
Sono solubile. Sono parte. Sono cellula. Sono anticorpo. Viaggio alla velocità della luce per vene e arterie, stringhe temporali, nel buio di un universo senza luce.
Scorrono i titoli di coda: “Keaton il Tremendo, tagliatore di gole”.
Sottotitolo: “Sgozzo le gole di chi osa”.
E’ l’unico film muto in cui il Genio parla. Recita, scandendo bene col labiale: “Divoro il mio stesso cinema per renderlo solubile”.
Regia di Buster Keaton.
E’ tutto un grondare di sangue.

 

 

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