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Roberto Disma: Sono uno che scrive

Chi è Roberto Disma?

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Citando Giorgio Gaber, “Sono uno che scrive”. Gli stimoli perché mi dedicassi al teatro, alla scrittura e alla musica sono nati contemporaneamente e, anche se hanno acquisito sviluppi diversi e forme d’espressione autonome, tendono sempre a rincontrarsi. In fondo, è la scrittura la forma d’arte che unisce le altre; credo che il mio punto di forza – o di debolezza, dipende dal punto di vista – sia sempre stato il rifiutarmi di definirmi ciò che non ho dimostrato di essere. Per questo a dodici anni, quando a scuola ci diedero il compito di scrivere un articolo di giornale, volli inviarlo a una rivista locale; lo pubblicarono.

 

Col teatro la stessa cosa: mentre frequentavo ogni laboratorio mi capitasse sotto mano, mi piaceva sperimentare il rapporto con il pubblico tra cabaret di piazza e piccole scene teatrali improvvisate negli eventi pubblici, sono arrivato anche a suonare il marranzano dentro una chiesa pur di sperimentare, con susseguenti polemiche da parte del parroco. Spesso i testi li scrivevo io, ma non mi bastava e volevo dare l’idea di una rappresentazione completa nella sua semplicità: da là è nata l’esigenza di fare musica e che fosse musica mia. Tra le tre l’arte più in vista è ovviamente il teatro, ma se non mi fossi prestato come autore oltre che come attore ammetto in tutta sincerità che sarebbe stato molto più difficoltoso lavorare costantemente da una compagnia a un’altra tra la Sicilia, il Lazio e il Piemonte; la scrittura è stata anche un biglietto da visita – la pubblicazione di romanzi storici, evidentemente, presuppone una capacità nello svolgere una ricerca e saper scrivere con metodo – e un’apripista in occasioni come il Salone Internazionale del Libro di Torino.

 

In un ambiente come il teatro, dove ai primi passi si intende che le prospettive di paga sono meno credibili di Babbo Natale e a qualche passo compiuto l’incoraggiamento più grande è “la produzione ha avuto più spese del previsto”, dove i raccomandati vanno a braccetto con registi mediocri che si gonfiano la bocca per spiegarti quanto sono importanti, il mio principio è sempre stato uno: essere il più veloce e il più efficace nel presentare il lavoro commissionato. È così che, oltre a una buona dose di fortuna, ho avuto modo di essere l’unico autore e attore esterno in collaborazione con l’Istituto di Stato Cine-Tv “Roberto Rossellini” di Roma, ad esempio, e forse per lo stesso motivo da Torino, a conclusione di un lavoro, mi hanno mandato a Catania piuttosto che piantarmi in asso. Arrivo a Catania alla fine del 2016, con qualche riconoscimento raggiunto in ambito teatrale, il terzo romanzo appena pubblicato e una chitarra da cui non so separarmi. Non mi piacciono le condizioni in cui dovrei lavorare, ho tre mesi di tempo prima di iniziare e conosco ragazzi, per la maggior parte universitari, che fanno teatro da tempo e continuano ad essere spremuti da laboratori che spesso fanno più male che bene e spettacoli non pagati con promesse hollywoodiane.

 

Con molta spontaneità, senza rifletterci troppo, scrivo un testo, raduno i ragazzi con maggiore esperienza nella camera in affitto e programmo un calendario di prove: nasce così Teatro alla Lettera. L’idea iniziale era quella di creare un modello simile alle compagnie universitarie che avevo visto nel Nord Italia, ma con un valore in più da “tirocinio” professionale nell’ambito; insomma, un modo per avviare i ragazzi al professionismo sul serio, e senza che spendessero di tasca loro qualcosa. Ovviamente mi sono ritrovato anche a formare e dirigere, ma non era la prima volta che capitava e non potevo certo immaginarmi quanto fosse formativo anche per me trovarmi a fare il regista che, come diceva De Filippo, a teatro non esiste: infatti mi sono sempre definito “direttore di compagnia”.

 

Mi piace definire l’attività di Teatro alla Lettera come quella dell’artigiano: l’apprendista si forma in bottega, l’attore in prova e sul palco, a costo di svolgere incontri prettamente formativi, purché siano dentro il contesto delle prove e non a sé stanti come se la formazione teatrale fosse distaccata dalla pratica; e se non corrispondi nulla, l’attore non entrerà mai nella concezione del professionismo. Per essere più chiari: in Teatro alla Lettera il direttore deve assegnare la parte, lavorare con gli attori, colmare quello che la giovane età non consente di aver ancora raggiunto con la formazione ove necessario, andare in scena e riconoscere il merito all’attore perché, se io sto investendo su di lui, il ragazzo mi ha dato l’obiettivo della sua vita tra le mani ed è forse la dimostrazione di fiducia più grande che possa mai dare a chicchessia. Direi che è molto poco quello che sono in grado di dare in confronto al sogno di un giovane, per non parlare che mi sono trovato mille volte meglio a lavorare con giovani vivaci, intuitivi e che assorbono come spugne tutto ciò che li circonda, piuttosto che alcuni vecchi tromboni frustrati che provano a condividere i propri fallimenti ai più giovani. Infine, Teatro alla Lettera mi ha fatto tornare a Roma, a Bologna, e chissà in quanti altri posti ancora! È una realtà dinamica, che si mobilita rapidamente e a tratti in modo imprevedibile, pur mantenendo sempre lo spirito di creare, osare, sperimentare e credere nei propri principi: a pensarci bene, con questa definizione ho spiegato anche chi sono io.

Mission e fil rouge?

Trasmettere un messaggio, questo è tutto ciò che pretendo. Raccontare quello che non è stato ancora raccontato, stabilire un contatto con il pubblico con la contemporaneità dei lavori; per questo ho puntato molto sullo stile del Teatro di Narrazione e sul genere della Satira e del Teatro Civile. Nella realizzazione, è stato d’obbligo un ritorno all’essenziale, proprio per dimostrare che si può fare molto con poco. A quasi tre anni dalla fondazione di Teatro alla Lettera, abbiamo rappresentato oltre una decina di inediti e sin dal primo lavoro, Il Principe Galeotto, ho puntato a un riconoscimento istituzionale inserendo lo spettacolo nel Progetto Nazionale 2017 “Sulla strada degli Etruschi” nel Lazio; stessa cosa con La ragazza di Mezra, patrocinato da Palermo Capitale della Cultura 2018. Con Rete Ribelle abbiamo collaborato con l’associazione Generazione Ypsilon di cui sono Coordinatore Artistico e lavorato per l’organizzazione ONU Internet Society; il lavoro è stato rappresentato anche per l’Internet Governance Forum 2017 all’Università di Bologna, dove ho firmato una liberatoria per l’utilizzo del materiale a scopo didattico. Abbiamo collaborato con enti quali la Fondazione Giuseppe Fava e l’orchestra MusicaInsieme a Librino per Lezione sulla mafia di Pippo Fava, lo spazio culturale Dendron di cui sono Condirettore Artistico per le rassegne estive, l’associazione Insieme ONLUS con cui abbiamo realizzato il film documentario Cristo si è fermato a Tripoli, abbiamo curato gli allestimenti per le Giornate Nazionali della Letteratura a Catania e abbiamo collaborato anche con la Sorbona di Parigi.

 

Parlando di Roberto Disma a titolo esclusivamente personale, negli ultimi anni sono stato Finalista Nazionale al Tour Music Fest nel 2016, il più grande festival di musica emergente d’Europa, nel 2018 ho vinto il Premio Nazionale Angelo Musco e ho pubblicato il quarto romanzo La duchessa di Leyra, per cui sono stato ovviamente ispirato dal mio soggiorno catanese. Il motivo è sempre lo stesso: essere in diritto di definirmi solo ciò che ho dimostrato di essere, perché solo con una base concreta è possibile progredire e continuare il percorso. Non sono nessuno per dire se quello che ho fatto è bene o male, ma so di poter continuare a passo spedito e di essere profondamente grato per chi crede in quello che faccio. Il fil rouge, quindi, è un rinnovo del teatro con la contemporaneità dei lavori, l’impiego dei giovani, trovare una chiave che ci permetta di esprimere un’arte che sia nuova e vera e, come dico sempre, che ci dia la consapevolezza di essere testimoni del proprio tempo per fare nostro il futuro che ci attende.

Che cos’è il teatro?

Carmelo Bene sosteneva che il bambino fa teatro perché gioca, l’adulto non è in grado perché ha sostituito il gioco allo scherzo. Il teatro è un gioco dove puoi mettere alla berlina quello che nella vita quotidiana è difficile dimostrare, una verità che con la finzione entra nel modo più diretto ed esplicito allo spettatore, un mondo temporaneo che si crea all’apertura del sipario e si spezza all’applauso finale del pubblico. Col teatro tutti assieme costituiamo una consapevolezza che possiamo portarci a casa per rendere la nostra vita un po’ più autentica. Se devo definirlo da un punto di vista personale, io sostengo sempre che il teatro, così come ogni rappresentazione d’arte, è un incontro d’amore con il pubblico: deve scattare la scintilla per poter fare l’amore. Ovviamente è una metafora per spiegare quell’intimità necessaria perché la verità e l’autenticità esplodano nel gioco della finzione e questo straordinario contrasto può essere spinto solo dalla follia di un sentimento profondo. Nello specifico, se fai teatro stai in ogni caso parlando dell’uomo con l’uomo: anche se rappresentassi un albero che parla con un cespuglio, resterei un uomo e calcherei il palco per l’uomo che assiste allo spettacolo. Per questo, alla fine, il sentimento profondo del teatro risiede nell’umanità.

 

Prossimo lavoro?

Al momento sto lavorando tra il Lazio e l’Emilia Romagna, ma torneremo in Sicilia per il mese di giugno con Lucifero nei pozzi, un lavoro di Teatro Canzone in collaborazione con Dendron. Non sarà l’unico lavoro a comprendere la musica, un altro in cantiere potrebbe vedere la luce da un momento all’altro. Per il resto, le grandi novità non tarderanno ad arrivare e, per lo stesso motivo che mi spinge a non pronunciarmi finché non ho fatto, chiudo citando Ciacco nel Canto VI dell’Inferno: Più non ti dico e più non ti rispondo. Grazie!

 

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Paolo Zerbo
Paolo Zerbohttp://zarbos.altervista.org
Paolo Zerbo Direttore responsabile Laurea in Sociologia Communication skills and process model ICT developer
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