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“Trattato di Anatomia Emozionale”: taumaturgico collante nell’era della “zona-comfort”

Metti uno degli ultimi griot d’Occidente, un antieroe che ha attraversato tutte le peripezie dell‘Odissea regionale del mondo antropizzato (tal Andrea Pennisi), insieme a una delle rarissime streghette ancora operanti nel Regno della Plastificazione Mediatica (tal Virgina Caldarella), ed ecco venir fuori la vera e propria singolarità, il libro-arcano, l’oggetto anomalo nell’affollato universo del libro. Nasce così, per mitosi di cellule antiche, un trattato ancestrale nell’era della “zona-comfort”, del regno asettico dell’individuo-specie, dell’atollo biologico e del tecno-ambiente, un testo arcaico che funge da zavorra per i corpi fluttuanti della contemporaneità. La funzione di questo scrigno di conoscenze è essenzialmente quella di fungere da contrappeso e di far da taumaturgico collante alle viscosità del presente, alle nevrosi strutturali della mente-corpo. Per queste ragioni, mai fu così tempestiva la ripubblicazione di questo manuale ad opera della nascente casa editrice “Lunaria”, giacché nella generale e imperante attualità dell’inflazione egoica, il “Trattato di Anatomia Emozionale” produce effetti terapeutici, funge da arnica dell’anima, prima che del corpo, e da unguento cicatrizzante delle ingiurie sofferte dal Puer-Senex, dal bimbo-patriarca che è l’anima del mondo.
A parlare, quale austera e somma voce del passato, è la voce “fuori campo” di Melanio da Colia, immaginario sapiente che indica il percorso iniziatico in qualità di spirituale guida, operando per simbologie affini a quelle del linguaggio dei Tarocchi, seguendo gli antichi percorsi, le strade perdute dei maestri, di Socrate, Pitagora, Giordano Bruno, Kant, Jodorowski, Gurdjieff, Neruda, Einstein, itinerari un tempo solcati dai viaggiatori della conoscenza prima d’essere asfaltati dalle brame specialistiche dello scientismo cieco.
Gli splendidi affreschi della Caldarella coniugati ai sinuosi orditi del Pennisi, rimandano inevitabilmente alla straordinaria opera di William Blake “La Divina Commedia di Dante” per la plasticità del processo di trasposizione figurativa e per le modalità espressive di questa “messa in scena” in chiave tragicomica dei malesseri dell’uomo della società dei consumi, operata secondo strategie che oseremmo definire “omeopatiche”, a dispetto della sontuosa parata di immagini e parole. Di più: si ha quasi l’impressione di cogliere la vera essenza dell’opera più nello scarto – in ciò che fermenta nell’animo del fruitore e poi si sedimenta nel domani meno cagionevole – che nel vibrante corpo del Trattato, il quale mostra senza rivelare, indicando una dantesca terza via allegorica e non sensoriale di fruizione. La trasposizione figurativa di un testo implica sempre la “teatralizzazione” del processo dialettico tra immagine e parola e dunque la riflessione sui limiti di una semantica praticabile; nel Trattato di Anatomia Emozionale la finzione è funzione ed enfasi carnascialesca del sintomo, una messa in scena necessaria a generare una dinamica terapeutica tramite il flusso inesauribile dell’espressione artistica. Essa non conosce confini, né limiti di cornice, essendo linguaggio del magico e dominio dell’irrazionale.

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