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La luce del peccato nella pièce di “Concetto al buio”

Concetto Acquaviva (Giovanni Arezzo) è un adolescente che stava “al buio” del suo armadio, perché l’argomento lo “sgomentava”. Perché il sesso quando non vissuto in maniera naturale “sgomenta” chiunque. Il sesso e la religione è un argomento che “sgomenta” quasi tutti gli esseri umani. Mettere d’accordo la parte istintuale repressa degli adulti per questioni culturali e sociali e soprattutto di trasmissioni avvenute nella famiglia “perché il sesso è quello che si apprende nel proprio nucleo di educazione” e di trasmissione a livello di “leggenda” familiare. Figuriamoci il valore genetico/parentale su un adolescente.

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La nostra educazione occidentale cattolica fondamentalmente per questioni di dogmi e quant’altro non sia spiegabile a livello cognitivo prevede che chi si occupa di religione debba essere astinente da qualsiasi “complicazione” a livello sessuale e che il rapporto con Dio sia soltanto “spirituale”. Quindi il contatto con il corpo rientra nell’etimologia del “peccato” per così dire “veniale”. E non “mortale”.  E per “veniale” s’intende ancora una volta la distinzione tra peccato “veniale” e “mortale” che si basa su questi tre elementi. Si compie un peccato veniale quando non c’è materia grave; oppure, se c’è, non c’è la piena avvertenza della mente o il deliberato consenso della volontà. E per compiere un peccato mortale si richiede la presenza simultanea di tre elementi: materia grave, piena consapevolezza della mente e deliberato consenso della volontà. Quindi simbolicamente e teatralmente parlando il peccato veniale è senza coscienza e volontà e il peccato mortale è con coscienza e volontà di praticarlo.

 

Pregevole e funzionale nella scenografia l’impatto di una camera da letto dove chi è già morto di “vergogna” per aver provato delle sensazioni “disdicevoli” non possa aver avuto indicazioni dalla “strega”  (l’istinto che bussa continuamente alla porta d’ingresso) di essere accolti e non provvidamente soccorsi da un punto di vista “spirituale” e benedetti da un punto di vista “materiale”. Tranne il fatto di poter entrare ed uscire da un armadio pieno di santini che testimoniano l’avvenuta conversione “spirituale”. E “corporale” con coscienza e volontà. E la croce di tutti i peccati che comunque incombe sul letto.

 

L’età è quella giusta, 13 anni, che non era quella degli attori anagraficamente parlando, (si suppone per questioni legali ma che legata al senno di poi, l’età reale è quella adulta in cui queste persone “attanagliate dal peccato veniale e a volte mortale” arrivano in terapia), ma era quella che tenevano gli interpreti che in maniera magistrale,  tenevano annotate in un diario rosso, vivi e morti e che rappresentavano “le sommosse ormonali” che li “albergavano”, che insomma li “abitavano” tra armadio, letto, altare e tavola da pranzo, che per il prete erano la “stessa cosa”.

Il prete e madre dei due adolescenti “la maestra” (un perfettissimo e mirabilmente viscido Agostino Zumbo) che è anche lui/lei  è vittima della demagogiga astinenza sessuale della religione cattolica imperante, eterno rammarico della teologia canonica, che porta alla creazione di “mostri” di “ombre” in soggetti che seppur “spiritualmente dotati” continuano ad avere “sentori” ormonali, istintuali privi di qualsiasi formazione nell’ambito della sublimazione “energetica sessuale”, che di “corpo siamo fatti” e che non possiamo ignorare se non preda di istinti isterici e “perversi” nelle nostre avulse e deleterie estrinsecazioni .

 

L’evocazione della famiglia con la madre magistralmente interpretata da dentro il comodino nella boccia di cristallo e dalla discrepanza dei cuscini del letto sempre da un efferato e anatemico Agostino Zumbo era la coscienza la trasmissione “opprimente” dell’educazione intellettuale e scolastica che quello che viene trasmesso è giusto è così va fatto anche se si tratta del “pompinu” che il fratello di Concetto, il suicida Carmelo, “testimone e attore vergognoso” da sotto il letto,  per pochi soldi ha dovuto soddisfare. E poi espiare con la sua “transustazione” figurata nell’impiccagione come espiazione e assoluzione del peccato “veniale”. Che lui non lo sapeva nemmeno quello che stava facendo. Quindi era veniale.

 

La sorpresa poi che Concetto che era “femmina” il voto che lei/lui in un’ottica transgender, ha dovuto soddisfare, tra il suo “voto” e l’aspettativa del padre,  per la sostituzione di essere una “femmina sbagliata” in un mondo di “maschi giusti” prevarica la deontologia e la specializzazione di chi scrive. L’indignazione per un terapeuta (nda la sottoscritta è psicosessuologa) è ben poca cosa rispetto alla normalizzazione che ci prescrive la deontologia e il patteggiamento, o la condizione di causa che riguarda il paziente che a noi ci si rivolge.

La protezione e la tutela di ciò che abbiamo visto senza veli e risoluzioni tecniche riguarda uno stato psicofisico mentale che riguarda tutti da un punto di vista sociale e attuale che non può essere racchiuso in una recensione teatrale.

Anzi che dev’essere condiviso affinché le tragedie di “Concetto che è rimasto al buio” di quello che sentiva dentro il suo armadio e sotto al letto, e sull’ara del prete “confuso” non vadano perdute nel vuoto di un palcoscenico sgomento dalle proprie emozioni ed esperienze personali.

Grande plauso a Giovanni Arezzo e Francesco Maria Attardi che raccontano la vita di due adolescenti chiusi in una “stanza buia”, da sempre e forse per sempre, sotto il letto e dentro l’armadio, in maniera esemplare rispecchiante e riconoscibile tale da poter servire ad una denuncia plausibile e terapeuticamente gestibile e forse guaribile. Per le vittime e i carnefici. Che entrambi ne hanno bisogno.

Al regista Guglielmo Ferro una lode profonda secolare sul coraggio per affrontare un argomento su cui regna un tabù veicolato da ignoranza fisiologica, morale, cognitivo-strutturale e che a volte la divulgazione culturale può cominciare a sgretolare per indicare una strada per l’evoluzione genetica che ambisce a sviluppare nuove generazioni avulse da retoriche degenerazioni.

 

Magari non era questo il destino di chi ci ha propugnato una religione che ci facesse guarire dalle nostre irredimibili curiosità nella costruzione di un’unità di mente, corpo e spirito.

Le foto professionali  con  firma digitale sono di Donatella Turillo con cui abbiamo espresso un lavoro di condivisione. Quelle senza nome sono le mie.

Riprese Davide Sgroi montaggio Paolo Zerbo

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Susanna Basile
Susanna Basilehttp://www.susannabasile.it
Susanna Basile Assistente di redazione Psicologa e sessuologa
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