Carmen è una sigaraia, una gipsy, una ribelle e rappresenta l’amore sensuale che vive soltanto con emozioni forti così è stata sempre rappresentata e Anastasia Boldyreva con la sua presenza statuaria e la sua potente voce applicata alla sfrontatezza del personaggio ha impressionato il pubblico assiso. Tratto da un racconto di Merimèe musicato da Bizet la Carmen rappresenta una categoria specifica di donne che finiscono quasi sempre “male”, perché rasentando la lussuria la promiscuità, vedasi eroine di pari epoca come la Traviata Madama Butterfly, in qualche modo la Boheme e in tempi diversi anche Norma che da vestale decide di “peccare”, sono donne che non sono sposate, che vivono i loro amori in piena luce del sole e a volte “ombra”, “devono morire” per le scelte fatte. Sì, in qualche modo sono femminicidi diretti o indiretti di donne che hanno sbagliato peccando per amore. Ma in qualche modo la nostra Carmen, per quanto scandalosa fu l’uscita all’epoca, rappresenta nell’ambito psicologico, il rapporto della “follia a due” tra amato e amante.
Non è un caso che il suo Josè, un perplesso tenore Gaston Rivero, la uccide: ha lasciato il battaglione per lei dove peraltro era un semplice soldato, ma non ci sembra nemmeno un leader all’interno della cosca dei contrabbandieri, nonostante il gesto plateale di aver fatto fuggire Carmen il loro rapporto amoroso non può avere lunga durata, troppe asimmetrie, dove Carmen ti dice “io ti amo senza che tu mi ami ma quando io decido di amarti devi stare attento… perché l’amore è un uccello ribelle”. E attento doveva stare Josè perché per Carmen se non c’è tormento non c’è estasi e quindi lo lascia perché Josè, è fondamentalmente un ignavo.
Da tale rapporto di gelosia psicopatica non si scappa: il coltello arma bianca corta adatto ai popolani. È come se sotto sotto al di là dell’indignazione del femminicidio noi forse pensiamo, azzardo l’espressione, che Carmen se lo sia meritato. Perché? Le sigaraie nel periodo che stiamo esaminando erano considerate delle poco di buono per eccellenza: sapevate che per arrotolare i sigari se li passavano sull’inguine e sull’interno cosce? Erano quindi costrette a restare seminude anche per il caldo che faceva all’interno delle fabbriche nella concia del tabacco e per questo poi “dei sigari” finivano in zone oscure di contrabbando. Grande plauso alla “nostra” onesta e gentile Micaela, molto presente con voce e portamento, la catanese Daniela Schillaci. Qualche dissonanza tra orchestra e il torero Don Escamillo, il baritono Simone Alberghini, ben supportato dal coro del Teatro Massimo. Sontuosa la scenografia con quel tanto di barocco naive che non trascende in picaresco divenire. Una compattissima prova d’autore, dove il regista Luca Verdone, anche autore della scenografia (da un progetto di Virginia Vianello), ha permesso alle tre ore di rappresentazione di passare in un lampo.