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“Death Stranding” di Hideo Kojima

“Death Stranding” è un’opera concettuale perché pone fondamentali quesiti filosofici, ma è anche una fra le storie più apocalittiche e sconcertanti degli ultimi decenni, un immenso viaggio prometeico che consacra il genio del demiurgo Hideo Kojima come una fra le menti più brillanti del nostro tempo. Innanzitutto, cominciamo col dire che definire “Death Stranding” un videogioco è riduttivo. Siamo di fronte a un oggetto mediatico complesso, a un affresco maestoso che necessita di un notevole sforzo applicativo per essere penetrato nella sua essenza, la quale ha radici profonde che traggono linfa dal Nietzsche dell’“eterno ritorno” e da tutto un immaginario collettivo che afferisce a possibili scenari post-apocalittici del futuro. Insomma, sconsigliamo vivamente i cercatori di svago spensierato o di relativo impegno videoludico dal cimentarsi in quest’avventura, perché il rapporto con “Death Stranding” ha tutte le caratteristiche dell’esperienza immersiva.
L’ultima opera di Kojima è innanzitutto momento di altissimo cinema, a cominciare dal cast di attori coinvolti (per citare solo i principali): Norman Reedus, Mads Mikkelsen, Léa Seydoux, Margaret Qualley e Lindsay Wagner, essendo cinematografica tutta l’ossessione visiva dell’estetica di questa tragedia che rimanda alla visionarietà claustrofobica d’un Tarkovskij e alla magnificenza delle immagini d’un Malick. Siamo di fronte a una sorta di iperoggetto che fa irruzione nel campo videoludico e dei media tout court, capace di stupire per la ricchezza di citazioni (ad esempio, i testi di William Blake nel teaser di presentazione), ma anche per la qualità del suo comparto tecnologico e per l’originalità del gameplayer.
Dopo un po’ che si è immersi nella realtà generata da Kojima, sorge spontaneo il quesito che c’è qualcosa che non va nella realtà, si ha la sensazione di “non sprecare del tempo, di accumulare una ricchezza di esperienze virtuali che possono dirci molto sul nostro vero Io (…)”, di aver “sviluppato anche modi di pensare, organizzare e agire che possono cambiare il mondo (…) di usarli per il bene del mondo reale” (sto citando il meraviglioso libro di Jane McGonigal “La Realtà In Gioco”). Se, come immagino, fra qualche tempo, molti fra i videogame usciti in questi decenni, verranno studiati e analizzati come ipertesti in ogni scuola, facoltà, università degne di questo nome e saranno programma di studio interdisciplinare, uno spazio particolare sarà sicuramente dedicato a “Death Stranding”, ossia al gioco che segna – a mio avviso – uno speciale spartiacque nel cosmo videoludico.
Siamo di fronte a un’“Entità Estintiva”, la sesta, sdoppiata nelle due entità Bridget/Amelie, di cui la prima dedita a salvare l’umanità e la seconda a distruggere ogni sistema vivente. Prima di lei ci sono state cinque estinzioni (e anche qui potremmo trovare addentellati con le varie mitologie in ogni cultura). La parte terrena lavora alla realizzazione della “rete chirale”, tramite i cosiddetti “Bridge Baby”, ossia creature strappate in grembo alle madri morte e in grado di connettere il mondo dei “vivi” con quello dei “morti”, ma soprattutto di consentire di lottare contro le creature arenate (CA) composte di antimateria. Diventa un’impresa cercare di riassumere la trama di questo iperoggetto videoludico e questi brevi cenni servono solo a tentare di introdurre in questa breve recensione la figura di Sam, ossia del “riemerso” in possesso delle “DOOMS” necessarie a interagire con le CA. In definitiva, “Death Stranding” è una straordinaria e opprimente odissea che vede l’eroe viaggiare tra mondo reale, delirio dell’onirico, squarci di visioni futuristiche e interregni limbici che rispondono al nome di “Spiagge”, e che produrrà uno dei finali più sconvolgenti della nostra epoca videoludica.

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Per chi avesse voglia di vedere le oltre due ore di questo epico finale… https://youtu.be/mRVDv2wlD40

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