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Lo scatto giusto, il ritratto dell’anima, lo sguardo della verità e l’emozione più grande di un fotogiornalista curioso: Antonio Parrinello

La prima qualità di un artista dovrebbe essere l’umiltà. E Antonio Parrinello, per quanto mi riguarda ne possiede pure troppa. Ĕ stato fotografo internazionale di viaggi, di cinema, di cronaca “importante”, di teatro, di una vasta umanità, dell’Etna, di Sant’Agata, delle Facce di Librino, dei Migranti…ci racconta sé stesso e le sue avventure quotidiane.

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Chi è Antonio Parrinello?

Un uomo che per passione ha scelto di fare il fotografo. Dopo 30 anni di attività fotografica è anche un marito e un padre di tre figli. Il mestiere di fotografo l’ho imparato sui banchi di scuola grazie ad un compagno. Si lavorava con la pellicola: facevo i ritratti a casa, quelli della nonna. Sviluppavo personalmente in bianco e nero le foto. Al servizio di leva mi sistemarono al Centro Cinefoto dell’Esercito Italiano a Roma e quindi iniziai a fare i corsi al Centro Sperimentale Televisivo, siamo nel 1985: ho studiato con Pierluigi Diotallevi direttore della fotografia, corsi di sceneggiatura con Bertolucci e ho iniziato la mia carriera di fotografo di scena con Marco Risi. Nel film L’ultimo capodanno, tratto dal libro dello scrittore Niccolò Ammaniti, registrato a Cinecittà, ho “scattato” fotogramma per fotogramma, per le locandine, per l’archivio, per gli attori, Monica Bellucci, Alessandro Haber, Marco Giallini, Claudio Santamaria, e per tutta la produzione del film, dovevi lavorare quasi come un “fantasma”. Non disturbare e portare il lavoro a casa.

 

Quindi fotografo di scena ma anche fotografo di cronaca. Di che periodo stiamo parlando?

Siamo nel 1988/89 con il quotidiano La Sicilia facevo dei reportage per raccontare la nostra città. Con la cronaca di quel periodo, “gli omicidi di mafia” si vendeva molto anche all’estero. La “strada” mi ha sempre coinvolto. Infatti ho iniziato a lavorare con l’agenzia internazionale Reuters con eventi di grande interesse tramite le loro pubblicazioni mondiali, sull’Etna, la migrazione che seguivo dal 2000 e che poi è scoppiata nel 2011 a Lampedusa con lo sbarco di 5000 nordafricani.

Come fai a mantenerti “professionale” in queste situazioni?

Quando l’emozione ti prende te la devi “godere” fino in fondo! Per questo mi piace stare tra le persone. Non è facile, stare in contatto con la sofferenza di questa umanità. Mi sono ritrovato a prendere le mani di chi sbarcava sulla banchina. Un movimento assiduo su questi viaggi interminabili ed ero preso anche dalla fotografia. Piangevo per le persone che si aggrappavano: si passava dal drammatico al sorriso. E poi vedere la gente del posto che ha risposto con accoglienza a tutti quegli esseri umani: se li coricavano, gli davano da mangiare, li facevano lavare. Queste esperienze mi hanno lasciato un segno. E ancora continuano…questa foto ha fatto il giro del mondo.

 

Come fotografo di scena hai lavorato e continui a lavorare anche con il teatro. Che differenza c’è con il cinema e con la “vita vera”?

Con la videocamera puoi fermare l’attore e rifare la scena più volte in maniera diversa. In teatro durante la prova generale, “l’attimo della foto”, te lo devi cercare, devi stare là per capire cosa può succedere. Nel Teatro puoi argomentare con più foto quello che succede in scena. Nella cronaca con le agenzie internazionali esiste solo “Lo scatto”. Quello “scatto” e nessun altro: è come la sintesi dello sbarco di tutta la giornata, l’accoglienza, il sorriso, la fiducia, l’umorismo.

 

 

 Un’altra esperienza di formazione l’hai avuta con il viaggio in Sudamerica con il giornalista Miki Gambino. Cosa ti ricordi?

Miki Gambino, grande giornalista del mitico giornale I siciliani, di Giuseppe Fava, scriveva per  Geodes, mensile di viaggi e vacanze e andammo insieme alle Isole Morgans in Nicaragua e in Ecuador dove vivevano uomini e donne ultra centenari che lavoravano nelle coltivazioni di caffè. Sono viaggi che ti segnano una vita: dopo non sei più lo stesso,

 

Altro argomento fotografico di Antonio Parrinello: com’è la tua Sant’Agata?

La devozione, la curiosità, lo stimolo religioso, la mia santa è in bianco e nero, è monocromatica, considerando anche il “sacco” dei devoti. Anche qui devi anticipare gli eventi, devi stare dentro… utilizzo ottiche grandangolo per avvicinarmi alla gente, alla festa: devi buttarti nella calca emozionale. A proposito della mostra, che ho curato personalmente, Martiri Sant’Agata e migranti, il martirio della santa b/n i volti delle donne migranti che guardano il suo busto e questi occhi mi hanno sconvolto ed emozionato, per come il dolore avvicina persone di razze diverse in epoche diverse. La festa ha un’altra grande peculiarità che racchiude la differenza di classe: siamo tutti là “dentro”. Sant’Agata è trasversale va bene per tutti: buoni, cattivi, belli, brutti ricchi, poveri, siciliani e migranti.

 

Cosa ci racconti dell’esperienza di Librino con il mecenate Antonio Presti?

Ti rifai un’idea di questo quartiere attraverso questi ritratti. Nel progetto “Ci metto la faccia” i volti e i cuori di oltre mille abitanti di Librino richiamano la gioia da uno dei muri che per anni ha segnato il destino del quartiere: quello spartitraffico tra il centro della città di Catania e la sua periferia, dove oggi s’incontrano rinascita e riscatto sociale. Per 500 metri di cemento armato i pregiudizi, vengono abbattuti da “testimonianze” contemporanee di Amore e Speranza, e gli sguardi diventano “arredamento” urbano, umano e metropolitano. Mi hanno raccontato che quelli che distruggono sono “pochi” e che quelli che costruiscono sono “molti”: prima o poi lo capiranno…

 

Cosa ne pensi della fotografia oggi?

La fotografia sta per morire per eccesso di successo! Siamo abituati a vedere foto omologate piatte con filtrini, soft, glamour. Avere “l’occhio” o la critica sulla foto: ormai siamo tutti belli patinati col ritratto, questa non è fotografia, ma soltanto un’immagine. Siamo tutti convinti che sappiamo fare una foto. Parliamo di macchina fotografica, di ritratto, per distinguerti devi saper utilizzare l’angolazione, la luce. Io amo tutto ciò che è animato: le eruzioni, la fotografia sociale, ogni essere umano, ha un gesto, ha scritto in volto la verità. Per questo prediligo i reportage di fotogiornalismo,  per catturare l’anima, tutte le espressioni che hanno un significato da immortalare… ma poi c’è proprio quella, che quando la trovi…forse per questo a sera sono esausto ma felice!!!

 

Progetti futuri?

No comment. Forse ho bisogno di prendermi una vacanza.

E intanto arriva una telefonata per andare di corsa a Stromboli per fotografare la spettacolare eruzione.

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Paolo Zerbo
Paolo Zerbohttp://zarbos.altervista.org
Paolo Zerbo Direttore responsabile Laurea in Sociologia Communication skills and process model ICT developer
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