Sono “eroi senza gloria”, nel senso che se ce l’avevano magari l’hanno persa. Quasi sempre Re senza corona e si sa che “nel regno dei ciechi chi ha un occhio solo è il re”: ma l’occhio del regista Orofino è il terzo occhio immaginario e onirico che il suo pubblico affezionato comprende e capisce fin quasi a volersi scambiare nel ruolo con gli attori, attori che lo amano e lo apprezzano…
Ma chi è Nicola Alberto Orofino?
“Nasco come attore, ho studiato al Piccolo Teatro di Milano. Mi sono “scoperto” regista da circa 7 anni. Vivo a Catania e mi piace sempre riferirmi al posto dove vivo per criticarlo e ammirarlo senza soluzione di continuità”.
Come funziona oggi “il regista” di uno spettacolo, tu sei molto diverso dagli altri registi o è solo una mia percezione?
“Il regista contemporaneo è più autore, non si accontenta di mettere in scena soltanto il testo che diventa il pretesto porta il suo modo di vedere le cose. Oggi secondo me il lavoro di regista è più autoriale. Non lo so’ se sono diverso dagli altri: ognuno ha la propria poetica, il proprio immaginario. Mi dicono che ho un “immaginario malato” forse per questo sono diverso, chi meglio di te da psicologa può giudicarlo?”
Che il tuo “immaginario” sia “malato” si vede anche nelle “colonne sonore” dei tuoi spettacoli: perché c’è sempre una nota musicale dissonante rispetto all’ambientazione?
“Ho studiato pianoforte, sono stato nel coro del Piccolo Teatro, mia zia, mio padre avevano un amore sviscerato per la musica classica. A volte per una scena prima mi viene la musica e poi la scena. Negli anni mi sono perfezionato: i contrasti funzionano di più! Quanto la scena è più triste tanto la musica deve essere dissonante: il clima della scena ti fa di pensare di più…
Sperimentare nuovi modi di andare a teatro: 68 punto e basta, di che tipo di “lavoro” si è trattato?
Lo Stabile di Catania mi chiese di mettere in scena il 68 a Catania. La messa in scena è stata creata con attori molto giovani che non c’erano nel 68 ma che dovevano fare una ricerca su quello che era successo, sulle percezioni che si ritrovavano nella attuale società sulle modifiche e conseguenze. Era molto complesso anche per lo spettatore: dovevi venire a teatro 4 volte ti dovevi scegliere un percorso: università, politica, costume e società, lavoro. La novità è che gli attori hanno scritto i loro pezzi. La rivoluzione riguardava il sociale ma anche il personale: infatti quattro attrici hanno raccontato la loro vita.
Hai delle preferenze politiche, etiche o moraleggianti nelle scelte dei testi?
“È il pubblico che deve farsi un’idea delle cose che vede: io racconto delle cose e poi il pubblico si fa un suo giudizio. Il giudizio non deve appartenere né agli attori né al regista è il pubblico che deve giudicare. Quando è il regista che giudica e fa il bacchettone lo spettacolo è noioso. Io non do giudizi sia per personaggi positivi o negativi cerco di non avere preferenze di essere il più obiettivo possibile. A proposito di Mein Kampf Kabarett e della figura del giovane Hitler che doveva trovare la sua strada, bisogna ricordare che ci sono persone che sono portatori di un sentire comune altrimenti non avrebbero il successo che hanno”.
A proposito di un altro cattivo lo scespiriano Riccardo III che tipo di training hai usato, hai mai “tradito” un autore?
“Su Shakespeare io dico sempre ai ragazzi, lo spettacolo era frutto di un laboratorio, è come un supermercato. È impossibile mettere in scena tutto quello che c’è in un suo testo. Si deve fare un lavoro di scelta, di pulizia, la parte politica, la parte privata, ogni volta che lo leggi o che lo vedi scopri cose diverse e poi il pubblico vuole spettacoli veloci, diretti, devi comprendere inevitabilmente il grado sopportazione”.
Quindi era il risultato di un laboratorio, si notava infatti la complicità che c’era tra di loro come una terapia sistemica familiare…
“È vero c’era una tensione reale: come avremmo potuto sapere com’era la famiglia di Riccardo III? Ad esempio la regina Margherita donna incattivita, esiliata ma che gira sulla scena come uno spettro, un fantasma, in mezzo ai nuovi regnanti doveva, come la vedo io, tradurre in azione, in un gesto, in un fatto teatrale, una narrazione del testo. Per questo l’ho vista come una ex-regina, una vecchia bisbetica che insulta tutti, sprezzante, volgare, lei aveva la sigaretta e la voce rauca. Funziona così si va a tentativi: si rispecchia l’attore che sa fare quel tipo di dialogo, di atteggiamento e quindi diventa quel personaggio. L’interpretazione diventa così una parte di attore e una parte di personaggio. Ma deve funzionare, deve essere comprensibile dallo spettatore che magari riconosce qualcuno che tocca il suo “sentire”. Ed è lì che raggiungo il mio scopo.
Questo è accaduto anche con Lady Anna a cui Riccardo III ha ucciso il marito: com’è possibile che questa donna accetti di sposarlo?
“Per Lady Anna, un personaggio complicatissimo, abbiamo pensato al rapporto master/slave. Riccardo le uccide il marito e le dichiara il suo amore sul “cadavere caldo”. Anzi fanno sesso proprio sulla tomba del marito. Lei concepisce il “rapporto sentimentale” in questi termini, lui comunque le dice che l’ha ucciso per amore suo e lei prova un godimento anche quando lui la ucciderà. Il dolore del piacere. E comunque tutti i personaggi di Riccardo III sono avvolti da una forte sessualità si evince dal testo”.
Ma torniamo a Mein Kampf Kabarett. Perché la scelta di questo testo?
“È stata anche l’idea di Mezzaria produzione di mettere in scena un testo di George Tabori che avevo letto quasi 20 anni fa. Magari per capire se stiamo tornando al fascismo; se il fascismo di oggi è quello di ieri…rappresentare, raccontare, come nasce un’ideologia, in questo caso quella nazista. Il testo nasce da un paradosso dove sono gli stessi ebrei che suggeriscono ad Hitler il nazismo: fino alla fine il protagonista ebreo non si rende conto, lo capisce quando si legge nella lista della morte. Gli ebrei attendono il Messia è proprio il senso della storia: l’attesa. Mentre lo attendono lo hanno già costruito nei loro simboli: così questo si propone e si materializza sottoforma di antimessia”.
Nicola Orofino hai degli attori feticcio?
“Non ho attori che preferisco, scrivilo a caratteri cubitali. Mi dicono che lavoro sempre con gli stessi attori, sono le circostanze della vita che mi portano a scegliere un attore piuttosto che un altro. A me piace sperimentare, conoscere nuove persone. Adesso nell’ Enrico IV al Brancati ci sono attori con cui non ho mai lavorato. Vengo chiamato da parti diverse per lavorare e non faccio parte di nessuna associazione proprio perché voglio mantenermi libero. È vero con alcuni si crea una certa affinità, è umano. Tra l’altro non faccio provini ad attori che conosco o che posso vedere a teatro, per cui è spesso un’intuizione la scelta che faccio, perché mi viene in mente questo o quello che va bene per lo spettacolo”.
Di recente hai messo in scena uno spettacolo dove eri attore e regista, Il natale di Henry: come ti sei trovato?
“È stata una sperimentazione voluta dalla produzione Mezzaria. Devo ringraziare Gabriella Caltabiano che mi ha aiutato nella regia. Senza di lei e gli attori che sono venuti a vedermi che mi hanno dato dei consigli, non so se sarei riuscito. Avevo un’idea dello spettacolo abbastanza semplice: sapevo che potevo fare entrambi i ruoli. Sapevo che sarebbe stato difficilissimo ritornare in scena ma gli attori, anche solo quelli che mi hanno guardato e mi hanno detto quello che pensavano mi hanno permesso sistemare e aggiustare il tiro”.
Sarà stato liberatorio?
“Molto liberatorio! È vero uno dei problemi del regista è che tiene tutto dentro non si può sfogare mai! Per questo è stato molto divertente e anche molto “rischioso””.
Prossimo lavoro?
“Enrico IV di Pirandello con Miko Magistro al Piccolo Teatro della Città”.
Domani 16 gennaio il regista Nicola Alberto Orofino metterà in scena la pazzia di Enrico IV, un “eroe senza gloria” e magari uno dei suoi eroi preferiti. Ma questo secondo la sua deontologia professionale da “registapeuta” incallito non ce lo dirà mai!