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Malìa di Luigi Capuana al Teatro Brancati fino al 17 marzo

CATANIA –  L’umana passione, che “esploda in alto o in basso, tra creature popolane o aristocratiche, è cosa elevata, concentramento di forze, complicazione di sentimenti, energia, lotta, catastrofe, dramma insomma” (Capuana, 1898). Quella che del Capuana è stata definita come la più commovente creatura, dramma teatrale di una Sicilia animata da credenze ancestrali e passioni estreme, rivive nel debutto di ieri 28 febbraio 2019 al Teatro Brancati di Catania con la regia del maestro Armando Pugliese.

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Lo spettatore ha occasione di essere proiettato entro la rivisitazione del microcosmo paesano, ambientato sullo sfondo di una Sicilia ancestrale, terra di passioni travolgenti, di credenze popolari radicate, edificato sull’ordinamento patriarcale della società tardo ottocentesca, regolato dalle leggi dell’onore, della famiglia e della “roba”. Uno scenario che, grazie agli stessi, non necessita di scenografie estremamente elaborate per essere rievocato. A trasportare lo spettatore nell’atmosfera siciliana di fine ‘800, dove l’odio e la superstizione sono i risvolti di una società contadina, bastano pochi elementi ambientali, poiché coinvolgente ed efficace è la rappresentazione proposta dagli interpreti dei personaggi, pochi ma altrettanto definiti nel ruolo narrativo e psicologico.

Guia Jelo (Zia Pina), Angelo Tosto (Don Sciaveriu Teri), Riccardo Maria Tarci (Massaru Paulu ‘Nsiddu), Plinio Milazzo (Taddarida), Barbara Giordano (Jana), Marcello Montalto (Ninu), Roberta Rigano (Nedda), Giuseppe Schillaci (Cola), Lorenza Denaro (Catarina), trasportano sin dal primo atto nelle tormentate vicende che si snodano con ritmo incalzante, introdotto, dipinto e accompagnato attraverso intimi intervalli, dalle agrodolci melodie originali, eseguite dal vivo da Puccio Castrogiovanni nel ruolo di Mastru Nunziu. Quest’ultimo assurge al ruolo di sonorità narrante cui fa coro una musicalità globale, che ritroviamo pienamente nei dialoghi, in un dialetto siculo recante già in sé originariamente quegli elementi fonici capaci di emettere non solo suoni e cadenze ritmiche, ma anche significati. Temi che si intrecciano nella mente della protagonista, nella forma di abisso risonante di innumerevoli voci discordi, che le dà l’orribile sensazione -nonché presagio-di non essere più padrona di se stessa ma posseduta da forze estranee, malvagie ed invincibili… il demonio, la sorte, la malìa! Il motivo veicolante della passionalità, potente detonatore della carica emozionale, riconducibile al pathos della tradizione mediterranea, fa di Malìa un’opera fortemente connaturata ai canoni della tragedia greca. Seppur schiacciato da logiche maschiliste e patriarcali, protagonista indiscusso rimane infatti l’universo femminile con le sue convulsioni psicologiche, con le sue accese passioni, col suo ipertrofico sentire. Lo è sin dall’ingresso in scena della meravigliosa Guia Jelo che insieme a Riccardo Maria Tarci raccoglie il plauso del pubblico già ad inizio rappresentazione, omaggio meritatamente rivolto al duo che anche in questa sede mixa in maniera brillante tragicità e ironia, con l’altrettanto esilarante supporto di Angelo Tosto (Don Sciaveriu Teri). Jelo, passionale ed appassionata come sempre, si fa detentrice, nel ruolo di Zia Pina del tema veicolante, “a magaria”.

Affiancata da Don Sciaveriu Teri e Massaru Paulu ‘Nsiddu, animano la contrapposizione tra religiosità ostentata e scaramanzia. Tra altari sacri ed amuleti, il ricorso ultimo alla superstizione della fattura -in luogo alla fede o alle umane fallibili intenzioni “ca fannu u peccatu”- viene ad attuarsi entro una contrapposizione costante non priva di comicità.  Una passione illecita da reprimere, poiché potenzialmente destabilizzante l’ordine precostituito che si delinea entro un triangolo amoroso cui vertice è proprio Jana. Inquieta, instabile, isterica, questa sembra l’intonazione accordata da Barbara Giordano al personaggio. Jana sopraffatta dagli istinti osa desiderare, bestemmia, tradisce, si strugge sola nella sua inquietudine verso la vita, subendo con tormentata consapevolezza un turbamento interiore che viola i legami familiari e quelli dalla tradizione e dalla fede. Combattuta tra il rispetto del patto matrimoniale e il trasporto per il cognato, che si tradurranno in sofferenza fisica e psicologica, frutto di una repressione che provoca turbamenti somatizzati in un’esaltazione nervosa. Tormento di corpo e anima esibito attraverso un’espressività corporea dirompente e convulsiva ma al contempo aggraziata e lieve con la quale Giordano manifesta la coscienza della giovane donna che elabora il conflitto fra le tre istanze opposte della passione, dell’affetto fraterno e del dovere sociale, sforzandosi strenuamente di reprimere la prima in nome delle altre due.

Le istanze psicologiche incarnate dai due protagonisti maschili, fanno da contraltare al dramma delle donne. Cola di cui, attraverso l’esuberanza coinvolgente e l’ironia mista alla passionalità che si esprime in gestualità e sguardi tentatori, Giuseppe Schillaci restituisce l’irruenza e la spavalderia. La naturalezza istintuale concessa all’uomo, si unisce alla ribellione –seppur non espressamente manifesta- dalle sovrastrutture imposte, atteggiamento libertino attraverso il quale si consente di liquidare come “minchionerie” le ipotesi di malaugurio, consapevole delle origini viscerali delle proprie inquietudini e di quelle dell’amata cognata. Con sfumature sadiche e sensuali il giovane interprete insinua l’amata e sbeffeggia in maniera malcelata il cognato, non curante del monito della “vecchia magara” che su di lui incombe “Nun ti l’hai a godiri!”. Di contro, Marcello Montalto offre pacata rappresentazione dell’amore devoto dell’“uomo di senno”, incarnando il mondo interiore di Nino.

 

Il dramma enigmatico della follia amorosa, nel sovrapporsi alla razionalità, mostra così l’inesplorabile profondità degli abissi della coscienza. È questo forse l’esito cui ci conduce il dramma capuaniano conducendoci alla scoperta di un individuo inconoscibile, al mai compiuto tentativo, di esplorare l’abisso che abita l’animo umano. Lo spostamento, ideale dalla vita al palcoscenico interroga così le sovrastrutture dello spettatore contemporaneo, il quale è accompagnato piacevolmente nell’attraversare i territori impervi degli umani istinti. Il mix tragicomico proposto induce ad un continuo e veloce paragone mimetico tra l’esperienza quotidiana e la finzione teatrale, attualizzando la funzione catartica attraverso l’osservatore e spinto a rievocare confini e conflitti ideologici ancora attuali, immedesimazione che evidenzia la contemporaneità delle riflessioni indotte.  Un caso di passione patologica che si rivela, forse, non assolutamente regionale, né circoscritto entro un contesto spazio temporale definito. Spettacolo e analisi introspettiva tragicomica ed universale dei sentimenti più ancestrali dell’umano, cui è possibile assistere al teatro Brancati fino al 17 Marzo.

Le foto sono di Dino Stornello

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