È sufficiente che al potere ci sia una donna per parlare di matriarcato o potere femminile? La domanda è oggetto di dibattito e divisione non solo tra sociologi e antropologi, ma anche tra correnti femministe.
In una visione prettamente culturale, che pone in prima linea costrutti e convenzioni sociali per analizzare le tipologie di potere, bisognerebbe distinguere la donna che raggiunge il potere “adeguandosi” al modello patriarcale e maschilista della società occidentale dalla donna che afferma ed esercita un proprio potere mantenendo un’indipendenza che, come la Storia insegna, volge inevitabilmente al contrasto con l’autorità costituita.
Roberto Disma, autore del romanzo storico Venus Malus – L’avvelenatrice di Trastevere, edito da Graphofeel Edizioni, pone questo approfondito studio al centro della caratterizzazione della protagonista Giulia Tofana, palermitana povera, orfana – sembra che la madre Teofania D’Adamo sia stata giustiziata per aver ucciso il marito quando Giulia era a malapena adolescente – e trapiantata a Roma, che nel 1650 costituì un’organizzazione criminale di sole donne per la produzione e vendita della leggendaria Manna di San Nicola di Bari, meglio conosciuta come Acqua Tofana. In verità c’erano degli uomini, ma ricoprivano un ruolo prettamente marginale, e questo comportò un vero e proprio scontro incrociato tra lo Stato Pontificio, le confraternite che coi loro affari influivano nella politica dell’epoca e l’organizzazione delle avvelenatrici.
Con un percorso opposto sembra abbia affermato il proprio potere la coeva Olimpia Maidalchini Pamphilj, nota come Donna Olimpia, la Papessa o la Pimpaccia. Figlia di un amministratore della Dogana dei pascoli di Acquapendente, si evince la sua ascesa dalle prime nozze col facoltoso borghese Paolo Nini – morto dopo tre anni di matrimonio – e dalle seconde nozze con Pamphilio Pamphilj, più anziano di lei di quasi trent’anni e rampollo di una nobile famiglia prossima alla decadenza, ma utilissima per il suo ingresso nella società romana. Le sostanze ereditate dal primo marito e il titolo nobiliare acquisito dal secondo – che morì nel 1639, dopo ventisette anni di matrimonio – furono una base di partenza per i numerosissimi e ambigui legami che Olimpia instaurò nell’Urbe e che alimentarono un sistema clientelare molto favorevole ai Pamphilj, fino all’elezione al soglio pontificio di suo cognato Giovanni Battista Pamphilj, Innocenzo X. Tra questi legami non è possibile dimenticare il sottodatario apostolico Francesco Canonici detto Mascambruno, a cui commissionò una speculazione sui beni pubblici che generò uno dei danni erariali più gravi dell’intera Storia dello Stato Pontificio. Anche questo dettaglio è emblematico: Olimpia accetta la sottomissione per poi sottomettere, domina gli uomini esercitando lo stesso potere che in passato ha dovuto subire. Di contro, Giulia trova il modo di ribellarsi alla sottomissione e unisce donne accomunate dalla stessa voglia di riscatto per consolidare un potere completamente nuovo e diverso. Anche l’incipit della loro ascesa è completamente diverso e indicativo: Olimpia, da una famiglia del medio patriziato ma provinciale, si è sottoposta al convenzionale strumento del matrimonio; Giulia, dal poverissimo quartiere palermitano del Papireto dove forse praticava la prostituzione, ha scavalcato ogni etichetta o passaggio – che le avrebbero comunque impedito anche solo di avvicinarsi a quel tipo di potere, data la sua estrazione – spacciandosi della corte di Filippo IV di Spagna, ricorrendo quindi alla menzogna.
Entrambe le donne hanno creato un potere personale non indifferente e nella stessa epoca, con la netta differenza che Olimpia Pamphilj è entrata nelle maglie del potere patriarcale e ne ha fatto uso a suo beneficio, Giulia Tofana ha costituito una sua organizzazione indipendente in virtù di un riscatto sociale; non è un caso che la prima abbia riscontrato problemi con la giustizia solo successivamente al decadimento del potere dei Pamphilj e la seconda abbia dovuto costantemente evitare di finire sulla forca, dato che il suo stesso trasferimento a Roma è stato determinato da un’accusa mossa dall’Inquisizione siciliana.
Eppure, a prescindere dalla tipologia di potere conquistato o creato, compiacente o meno all’autorità costituita, sono state entrambe condannate dalle maldicenze della loro epoca e dalla scarsa considerazione storica dei giorni nostri. Una condanna quasi della stessa misura e, senza dubbio, completamente maschile.