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Il poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti “L’egiziano” a cura di Dora Marchese

Dora Marchese dedica un capitolo del suo libro “Nella terra di Iside. L’Egitto nell’immaginario letterario italiano” a Filippo Tommaso Marinetti che, come Giuseppe Ungaretti, nacque ad Alessandria d’Egitto. Anche per lui la terra natale diventerà materia importante per la sua arte letteraria. L’Egitto campeggia nelle parole in libertà di Dune (1914); è sfondo per l’ambientazione immaginaria di Mafarka il futurista (1909), o per l’improbabile romanzo Gli Indomabili, pubblicato nel 1922, ambientato tra dune del deserto ed oasi e riscaldato dalla selvaggia forza del sole («Il sole colava, colava miliardi e miliardi di raggi pesanti d’oro. Raggiera di tubature roventi perpendicolari»). Appare addirittura nel Manifesto del Futurismo, pubblicato su «Le Figaro» il 20 febbraio 1909, testo capitale della sua opera picconatrice della tradizione culturale. Infatti, prima di stabilire le leggi fondanti del suo nuovo movimento, Marinetti descrive l’appartamento milanese di Via del Senato nel quale il Futurismo è nato: un’abitazione che sa di Egitto, con i suoi «opulenti tappeti orientali» e le «lampade di moschea». Ma sarà soprattutto il Marinetti maturo a dedicare all’Egitto pagine straordinarie, scritte sul filo della memoria, in una prosa ricercata e lirica, dimentica dei furori incendiari del demolitore della sintassi. All’inizio degli anni Trenta, come peraltro accadrà anche a Ungaretti, Marinetti ritorna nella terra del Nilo e scrive delle pagine che, una volta raccolte, daranno vita a Il fascino dell’Egitto (1933): «Ritornavo dopo molti anni dinamici e creativi verso un punto fermo di contemplazione: il mio Egitto natale. Da tempo mi chiamavano i suoi cieli imbottiti di placida polvere d’oro, l’immobile andare delle dune gialle, gli alti triangoli imperativi delle Piramidi e le palme serene che benedicono il grasso padre Nilo allungato nel suo letto di terra nera e di erba verde».

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A differenza di Ungaretti, Marinetti ha un’immagine positiva, bella e vitale del suo Egitto; e anche lo stile usato per raccontarlo non ha più niente della frantumazione paroliberista, ma si configura come prosa d’arte, quella che trionfò, almeno per una breve stagione, nell’Italia del “ritorno all’ordine” fascista.

Nelle sue pagine ci sono i minareti e le palme («il candido stelo fiorito di un minareto e il ciuffo altissimo di una palma si diluivano come due pastiglie di pace obliosa nell’acqua argentea del crepuscolo»); le mura della Cittadella del Cairo, dalle quali si affacciano i cannoni inglesi («alti giubboni di pietra perpendicolari color deserto, pieghe rigide e bocche nere di cannoni inglesi all’occhiello»); l’Università di El Azhar, che un tempo avrebbe voluto incendiare come tutte le accademie ma che ora (e qui) visita e ammira: «Grande cortile chiuso da porticati. In fondo la moschea smarrisce nell’alto polverìo solare cupola e minareto per offrire giù la penombra fresca delle sue stuoie». Ci sono gli occhi corvini di Fatma, ma anche i tramonti da contemplare nel deserto, il Nilo con il quale dialogare, le piramidi sulle quali non grava più l’anatema lanciato nel 1909 contro tutto ciò che appartiene al passato. C’è la piramide di Sakkarah («Entro nella afosa imbottitura di un orizzonte di sabbia. Sakkarah»), ma anche, naturalmente, quelle di Giza: «lo splendore arancione delle piramidi. Tre. Geometriche. Ognuna col suo triangolo d’ombra cadente come un mantello fissato sull’occipite». Di fronte a una di queste (e, subito dopo, di fronte alla Sfinge), si ferma in religioso silenzio: «Arde tutta, ma è tutta fresca di spazio quella ansia costruita di tre strade che, per giungere al sole, rizzandosi s’incontrano nella cima luminosa. Religiosamente ne visito la base. Altezza umana ogni blocco. Poi me ne distacco. La groppa gigantesca, la coda girata e le zampe allungate di mattoni della Sfinge offrono miseri tappeti d’ombra». C’è spazio anche per la luna e per il suo chiarore, in questo libro scritto sul filo della nostalgia e dei ricordi. È qui che, all’altezza del 1930, Marinetti, oltre ad ammirare l’antichità delle piramidi, si inchina di fronte alla regina della notte che sta tramontando al sopraggiungere dell’alba: «Alba triste, stanca e disillusa. Sulla campagna fosca era effuso un silenzio di morte. Lentamente il cielo si strinava d’argento verdognolo. Oltre i campi coltivati, l’ondulazione delle sabbie si colorava delicatamente di viola alle carezze della luna declinante. Una luna calda e molle, color di ruggine gialla, calava, come una goccia d’oro, verso il mare lontano». Sono lontani gli anni del manifesto Uccidiamo il chiaro di luna. L’Egitto è il regno di un antichissimo passato, ma anche di una trascorsa stagione della propria vita.

L’incendiario Filippo Tommaso Marinetti, padre-padrone del Futurismo, «caffeina d’Europa» guerrafondaio politico-culturale, propugnatore della necessità di uccidere il chiaro di luna come emblema di una tradizione letteraria “passatista”, vede nell’Egitto, la sua terra natia, una terra straordinaria e ineguagliabile. La nascita ad Alessandria e i primi sedici anni di vita trascorsi nel paese africano, gli lasciano per sempre una traccia profonda, fatta di suoni, di colori, di suggestioni, di luoghi; una traccia che rimarrà per sempre impressa nel suo cuore rivoluzionario.

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