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Emilio Salgari, Aldo Palazzeschi e l’Egitto da lontano secondo Dora Marchese

Questo romanzo, avventuroso ed esotico, scandito da un incalzante ritmo narrativo degno del miglior Salgari, Le figlie dei Faraoni, testimonia, ancora una volta, quale grandissimo fascino rivestisse l’Egitto tra fine dell’Ottocento e inizi del Novecento. E se i viaggi e i soggiorni degli scrittori italiani nel paese del Nilo furono reali o semplicemente “agognati”, il viaggio di Salgari si colloca, con ogni probabilità, in questa seconda categoria. Come è noto, infatti, seppure Salgari non si mosse mail dal suo ingombro studio di Torino, nondimeno è stato capace di far compiere ai suoi lettori viaggi straordinari ed esaltanti itinerari grazie alla sua penna ed alla sua fantasia supportata sempre, però, da un attento e documentato studio riguardante i paesi nei quali ambientare le varie storie. E se Salgari ha condotto i suoi avidi lettori dalla Malesia alle Antille e perfino in India, non poteva certo restare estraneo al fascino dell’antico Egitto, tanto da ambientarci un romanzo storico, fitto di avventure e colpi di scena, di incontri e di scontri, di amori e di tradimenti, di buoni amici e di perfidi avversari, con mummie, piramidi, indovini, riti funebri, culto di animali, navigazioni sul Nilo: Le figlie dei faraoni, appunto.

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È, quello di Salgari, un Egitto al tempo stesso mitico e reale, ricostruito attraverso l’uso di numerose fonti, sia antiche sia ottocentesche). Già dall’incipit si capisce che l’Egitto è il Nilo, fiume maestoso e vitale, rievocato nelle prime righe: «Tutto era calmo sulle rive del maestoso Nilo. Il sole stava per scomparire dietro le altissime cime delle immense palme piumate, fra un mare di fuoco che arrossava le acque del fiume, facendole sembrare bronzo appena fuso, mentre a levante un vapore violaceo, che diventava di momento in momento più fosco, annunciava le prime tenebre. Un uomo stava ritto sulla riva, appoggiato al fusto d’una giovane palma, in una specie di molle abbandono e come immerso in profondi pensieri. Il suo sguardo vago errava sulle acque che si frangevano con un dolce gorgoglìo fra le radici dei papiri affondate nella melma. Era un bel giovane egiziano, forse appena diciottenne, con spalle piuttosto larghe e piene, le braccia nervose, terminanti in mani lunghe e sottili, i lineamenti bellissimi, regolari, ed i capelli e gli occhi nerissimi…” (E. Salgari)

La storia racconta del giovane Mirinri, legittimo erede al trono d’Egitto, che, spodestato da piccolo e allevato dal sacerdote Ounis, divenuto un giovane forte e valoroso s’innamora di una fanciulla bellissima, di sangue reale. Per conquistarla dovrà dimostrare a tutti le sue origini nobiliari e sconfiggere i cattivi che lo vogliono uccidere.

E se il paese dei Faraoni è per Salgari un luogo descritto “a tavolino”, attraverso immagini di cartoline o libri e riviste illustrati, anche l’Egitto di Aldo Palazzeschi è un paese raccontato per “sentito dire” e mai visitato. Palazzeschi negli anni della sua militanza futurista, oltre a scrivere Il Codice di Perelà, (1911) il suo romanzo più importante frutto dell’ondata demolitoria, e le poesie dell’Incendiario, elaborava anche La piramide, un racconto lasciato in sospeso negli anni della guerra e pubblicato solo nel 1926, generato dalla stagione avanguardista e che – forse non a caso – tirava in ballo anche il paese in cui Marinetti (amico fino al 1914, quando la guerra europea allontanò il pacifista Palazzeschi dall’interventismo futurista) era nato. Lo scrittore, con uno stile articolato descrive la storia di un solitario protagonista, il quale, riflettendo sulla sua condotta di vita, decide di dedicarsi ai viaggi, nella ricerca di un’illimitata evasione. Nel suo immaginario si spinge sempre più lontano: dalle città italiane all’Egitto, alle Indie, alla Cina… per poi passare il mare! La bellezza e la gioia non stanno tanto nel viaggiare, quanto nel pensare al viaggio; e il protagonista Palazzeschi, rimarrà, solo, alla sommità della sua fantastica piramide. L’Egitto diviene così nelle pagine della Piramide una delle mete più ambite di un viaggio da ideare, ma da non realizzare, forse per accidia ma anche per paura della distruzione di un’immagine ideale di un luogo prediletto. Per Marinetti e Ungaretti, al contrario, l’Egitto rappresentava le radici, la stazione di partenza per una movimentata esistenza.

 

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