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Ai miei cari morti, anche se siamo fuori tempo la prosa di Gabriella Vergari è sempre poesia

A preannunciare il giorno non era, per una volta, lo squillo della sveglia, né il sanguinolento reticolo dei graffiti incisi dall’aurora sulla caligine del cielo.

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E nemmeno il richiamo sempre più imperioso di una luce diurna eccezionalmente affrancata dall’impaccio degli scuri, che erano stati lasciati a posta spalancati fin dalla sera precedente.

Era piuttosto l’eccitante, istintiva percezione dell’evento, unita alla rinfrancante certezza dello scioglimento di un’attesa cominciata (nella più rosea delle ipotesi) almeno da settembre.

Il resto apparteneva poi al rito: la finzione del risveglio al bacio di mia madre, i complici bisbigli d’intesa con mia sorella, i fremiti di impazienza al lento prepararsi di mio padre, il sorriso compiaciuto della nonna, la scia di fragrante pasta Martorana e Ossa di morto, che segnava infallibilmente la via verso i regali.

Ed eccolo, infine, là sotto il letto, ma no, sopra la libreria, o forse nell’angolo vicino al comodino o nell’incavo del divano, un fiocco rivelatore, annodato con cura tutta speciale su un pacco dalle dimensioni rassicuranti, sì proprio quelle stesse, per giorni e giorni, stimate ad occhio, nella ressa d’uno scaffale stracolmo o tra gli irresistibili richiami d’una vetrina rutilante.

Io e mia sorella avanzavamo allora caute, quasi fingendoci cieche, per non bruciare in un istante ogni piacere e gustare a pieno il divertito coinvolgimento degli adulti, ma soprattutto per prolungare il più possibile un gioco di sorprese e ricerche che non si sarebbe nuovamente ripetuto se non di lì ad un anno esatto, dopo lo scorrere di altri dodici, lentissimi mesi.

E quale meraviglia, poi, quale affettuoso moto di gratitudine per quei parenti defunti, spesso mai conosciuti di persona o solo riposti nella memoria per la fugace carezza di una volta, per l’amorevole premura di un giorno!

Quale tenerezza per quel bisavolo dalla sagoma rarefatta in sbiaditi dagherrotipi, ritto sull’inseparabile bastone di finocchino – spesso lasciato generosamente a sformarsi sulle spalle di qualche figliolo riottoso, burbero e baldanzoso con quella sua chioma debitamente incanutita, eppure tanto sollecito e vicino alla sua discendenza da averne una volta di nuovo intuito (ed esaudito) i desideri più remoti.

Pascoli e Foscolo sarebbero solo successivamente intervenuti ad illuminare emozioni e sentimenti che già fin da allora mi si profilavano distinti. E sebbene non sapessi ancora né di «celeste corrispondenza di amorosi sensi», né di «eredità d’affetti» o «sospiri dal tumulo», ciò che provavo ogni volta, in quelle circostanze, era come la sensazione di un contatto con l’aldilà non sforzato ed astratto, ma caldo di amorevolezza e immediato. Quasi che la bambola, la bicicletta, il libro di avventure e perfino gli aborriti pantaloni di fustagno stessero di volta in volta a rappresentare, con la loro concretezza, non tanto (o non solo) l’appagamento di un desiderio lungamente accarezzato, quanto soprattutto il segno di un legame, forse inusuale, ma certamente saldo e inalterato, a dispetto di incolmabili distanze.

Quale occasione più empirica e diretta per avvertire le possibili contiguità tra la vita e la morte, per non percepire come definitivamente perduto chi fosse scomparso, per supporre immateriali presenze trasformate in presenti esistenze, per nutrire un rispetto della morte, consapevole ma alieno da ripulse e avversioni? E perché mai dovrebbe arrecare sconcerto  se una tradizione, che ci apparenta a tutti gli altri popoli inclini a vivere la morte come una delle dimensioni dell’esistenza, abbia voluto volgere in festa una ricorrenza, altrimenti destinata alla mestizia e al compianto, con l’insinuare  ̶  in uno con la religione cristiana  ̶  che non c’è dolore senza la speranza di una consolazione, né morte senza fiducia (o la promessa) di una rinascita?

E magari tutte le Donne Prassedi incontrate nel tempo e tutti i Grilli Parlanti schierati all’attacco di «usanze così macabre, profane e irriverenti», avessero mai potuto valutare la genuinità del trasporto e la convinta serietà di intenti con cui io e mia sorella ci accingevamo ogni anno a vergare (stile diverso ma uguale tenore) la tradizionale, circostanziata letterina da riporre sotto il piccolo busto di gesso dello studio paterno, nella solida, radicata certezza che quegli straordinari destinatari, tanto lontani quanto benevoli, non avrebbero sicuramente lasciato cadere nel vuoto un appello fatto sì di richieste ma anche di commenti, riflessioni e aspirazioni.

Tant’è che ora che la mia «Festa dei Morti» si risolve essenzialmente nel giro sempre più lungo con cui deposito crisantemi sulle tombe di amici e parenti, mi chiedo se davvero tutto questo rappresenti un omaggio tanto più ossequioso e pregnante della trepida dedica con cui un tempo ero solita suggellare quelle preziose letterine: «Ai miei cari morti con tutto l’affetto che posso…».

 

Tutti gli articoli di Gabriella Vergari, concessi in licenza gratuita per la pubblicazione e la conseguente divulgazione al giornale on line www.siciliareport.it, sono protette dal diritto d´autore nonché dal diritto di proprietà intellettuale. È quindi assolutamente vietato pubblicare, copiare, appropriarsi, ridistribuire, riprodurre qualsiasi frase, contenuto o immagine concernente i racconti, perché frutto del lavoro e dell´intelletto dell´autore stesso. É vietata la copia e la riproduzione dei contenuti e immagini in qualsiasi forma non autorizzata espressamente dall´autore Gabriella Vergari.

tratto dal libro Capriccio Siciliano Edizioni Carthago
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