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L’avventura degli improvvisatori involontari alla conquista delle Americhe

Nell’oramai lontanissimo 2011, riuscimmo in una vera impresa, portare un nutrito gruppo di musicisti, con tanto di famiglie al seguito, a NY per una settimana di concerti. Una colonizzazione al “contrario”. Ho scritto questo racconto ispirandomi a quella traversata mitica (organizzata autofinanziandoci, e senza alcun supporto economico).

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PROTAGONISTI E INTERPRETI:
Marco Cappelli: Marco Cuppiello
Luca Lo Bianco: Luca Bianconi
Andrea Sciacca: Andrea Sciocca
Antonio Quinci: Antonio Quindici
Anna Troisi: Anita De Troise
Gaia Mattiuzzi: Gaia Martinuzzi
Cristina Zavalloni – Cristina Cavalloni
Paolo Sorge: Paolo Sorgive
Enrico Cassia: Enrico Cassiopea
Fabrizio Licciardello: Fabrizio Licciardinello
Tommaso Vespo: Tommaso Vespucci
Alessandro Salerno: Alessandrino detto “Il Salernitano”
Gaetano Messina – Gaetano da Messina
Alberto Popolla – Albertino da Populla
Flavio Zanuttini – Flaviano Zanutti
Michele Caramazza – Michele Curamazze
Francesco Cusa – Francisco Da Cusano
Antonino Chiaramonte – Antonino Scuramonte
Mauro Pagani – Mauro Paganini
Elliott Sharp – Elliotto Sciarpe
Ron Anderson – Ronnie Andersonne
Jim Pugliese – Giacomino il Pugliese
Nicole Federici – Nicoletta Federichi

6 marzo 1841
La caravella di un manipolo di reietti – canaglie e scarti relegati ai margini del Granducato di Stivalopoli, in compagnia di infanti, famigli guitti e miserabili corti al seguito -, sbarcò in terra americana, al porto di Nuova Yorke il 6 marzo del 1811.
Mossi dalla fame, corrosi dalle piaghe purulente, sempre ai margini di quella grande città cinta da possenti muraglie, questi valorosi – un tempo nobili, ma adesso poco più che straccioni -, avevano risposto alle implorazioni del fu marchese Francisco da Cusano, dopo l’ennesimo sopruso perpetrato dalla Confederazione Musicale dei Piazzisti Italiani, volto a rafforzare le guarentigie di tal casta: “Masnada di valorosi combattenti, non siete stanchi d’elemosinare? Non siete fiaccati dalle umiliazioni? Dal suonare per quattro soldi fuori le mura in attesa di qualche scarto di cibo? Voi siete dei musicisti superbi costretti a nutrirsi del pane raffermo dell’umiliazione?! Andiamo verso ovest, verso la Terra delle Possibilità! Andiamo verso la Nuova Musica!”.
E così partimmo, i vessilli al vento come quelli di una bandiera nera corsara, con le due “ii” in avorio al posto delle ossa del teschio.
Durante traversata ne perirono alcuni, altri si ammalarono. I superstiti misero piede nel Nuovo Mondo che era quasi mezzogiorno inoltrato.
Quale sbalordimento alla vista di quella marea umana! File interminabili di fiamminghi, d’ispanici e teutoni, si frammischiavano alle cordate dei popoli d’Africa in grande numero, per non dir degli orientali con i loro drappi pregiati. Era una enorme folla che pressava alle porte di quella terra ricolma di promesse, come il brulicar d’api attorno al favo.
E noi con occhio misericordioso a far gruppo, rimminchioniti per la lunga e perigliosa traversata, a toccarci e a tastarci per sentirci vivi, ciascuno aggrappato al proprio miserabile fagotto con dentro le rimanenze di una vita. Così, mestamente e come spaventati per quel gran trambusto, ci accodammo come pecore al cane e come cane al pastore.
Quand’ecco farsi avanti spavaldo un guascone, un uomo vispo e aitante, che noi subito riconoscemmo per arcano sentire quale “nostro contatto nelle Americhe,” come da dispaccio consegnato al porto di Calais. Era il nobile moschettiere napoletano Marco Cuppiello, superbo mandolinista, da molti anni di stanza a Nuova Yorke.
– Guagliò tiramm’ ffora ‘è doccument’, ‘che acca’, ‘ccù ‘sti ‘ffacci chi tinìti, vuie e ‘lli piduocchie ca purtati ‘n’cuoll’, firnite ‘n guoppp’ àe ‘ccaravell’ ie vinn’turnat’ è ‘ccase vuostr’ ”.
Si fece allora avanti con la solerzia di sempre, e il rinnovato vigore tipico degli uomini avvezzi a ogni sorta di imprevisto, tosto e risoluto, il nostro Colonnello Michele Curamazze, il quale presentando i nostri stemmi araldici con risolutezza e galanteria, con tanto di schiocco di stivale e ritto sull’attenti come un vero maestro cerimoniere, rese parimenti omaggi all’arguto Cuppiello rimasto nel frangente lì per lì come basito a confutar quanta costumanza avesse di fronte.
– Signori stiamo calmi -, ebbe a dirci il fiero Curamazze con voce ferma e rassicurante, – avete sentito le raccomandazioni del nostro valoroso emissario in terra straniera? Raccogliete ordunque vostre carte e rispondete all’appello”.

9 marzo 1841
– Nobilissima Gaia Martinuzzi, Nobilissima Anita De Troise, Pregiatissimi Maestri Paolo Sorgive, Fabrizio Licciardinello, Enrico Cassiopea, Tommaso Vespucci, Alessandrino detto “il Salernitano”, Luchino Bianconi, Gaetano da Messina, Albertino da Populla, Andrea Sciocca, Antonio Quindici, Flaviano Zanutti, Michele Curamazze, Francisco Da Cusano ed Antonino Scuramonte! La città di Nuova Yorke è lieta di accogliere le vostre sonate! Che s’aprano le danze!.
Questa, con grande nostra maraviglia fu la calorosa accoglienza che il diplomatico e Maestro di Cappella Mauro Paganini ci riservò, attaccando ed al contempo ammiccando con sguardo invitante un tempo di gavotta a furia di temibilissime e mirabilanti sviolinate, così, subitaneamente, in quel del teatro della “Columbia University”, pregiatissima sede le cui quinte eran state calcate da fior di cattedratici, filosofi e soloni d’ogni risma. Per non dir dello stupore quando, da dietro il palco, in un lampo parve piombare sui nostri capi la voce imperiosa della famosissima e temibilissima cantante Cristina Cavalloni, la qual ugola, palesandosi in un eclatante “do di petto”, finì col precipitare in forti ambasce il maestro Da Messina, che già disperava di come sbarazzarsi de lo suo violino da brazzo… Oh, qual prodigio di vocalità! Quali melismi! E noi come impietriti, come raggelati, a guardarci l’un l’altro con occhioni grandi, come a dire “ma dice a noi? parla a noi? tocca dunque a noi?”, tanto eravamo poco avvezzi a cotanto anelito di compartecipazione e cameratismo. E nella sarabanda di violino e nel turbinar della voce della Cavalloni, ecco al fine balenare il mandolino di Mastro Cuppiello, temibile in quello sciorinar di scale e tremolii impreziositi con orpelli e arguzie degne d’un trobadore, un contrappunto che apportava a quell’incedere poderoso un che di mediterraneo, in guisa di cadenze di seste napoletane a coppie.
– Chi cazz’ facite! -, bofonchiava il Cuppiello con occhio spiritato e con la voce strozzata, nel turbinar di dita, tra una scala e un glissato, un accordo ed un ostinato, una nota lunga ed uno staccato – nun facimm’ na figur’è ‘mmierde ‘accà! Sunate! Pigliatì ‘sti cazz’ è strummente! Sunate! Muorte ‘è stramuorte! Sunate! V’è magne ‘o core! Muorte ‘è stramuorte!
Come quando dopo la bonaccia, repentino prende a sibilare il vento, e la caravella trainata dalle vele gonfie prende vertiginosamente il rinnovato abbrivio fra i mulinelli d’onde, così la nostra banda scalcagnata cominciò a cavalcare quella sarabanda in guisa di selvatica puledra da domare. Dapprima i cembali de lo Quindici, subito assecondati da li tonanti bassi del Bianconi, e poi li mandolini di Sorgive e Cassiopea, in un crescendo rossiniano che raggiungeva le sue più alte vette con le trombe del Zanutti ed i gorgheggi della Martinuzzi. Oh, quale sublime emozione e quanto poco consone fùron queste parole, nel pusillanime tentativo di descrivere il delirio di suoni e melodie, di quegli infernali ritmi…
Fu un tripudio. Le genti di quel posto non la finivano di sperticarsi in elogi ed urla, ed era tutto un batter di mani ed un crepitar di impiantiti, con passi, come di marcia, possenti a reclamar nostro rientrar dalle quinte. E più e più volte ancora.

12 marzo 1841
Li giorni seguenti fùron densi di stupori: da ogni tugurio, per ogni spelonca s’udivano provenir suoni di melodie a noi conosciute ma che lì, in quel di Nuova Yorke, suonavano differentemente, con un cipiglio diverso, un incedere del tempo come dinoccolato, che noi, con tentativi maldestri, cercavamo d’emulare nei momenti di studio. I più grandi maestri in questo senso éran gli uomini di colore, ed era un gran bearsi di tutte quelle strambe armonie che principiavano, con l’andare dei giorni, ad addivenirci sempre più familiari. E poi che gran trambusto! Tutto appariva enorme in questa enorme città. Ovunque un trafficar di legnami e pietre e costruzioni di giganteschi torrioni. E insegne, e cotture di cibi pantagruelici, e trafficar di merci, e turbinàr di facce d’ogni specie, razza e colore, tutte indaffarate e di gran corsa, e prese come da smanie e frenesie di chissà quali importanti et pressanti faccende da risolvere.
Ma non si faceva in tempo a sbalordirsi che già Mastro Cuppiello giungea ad incalzarci ed a spronarci, pungolandoci a più riprese, motivandoci a ricordarci che non eravamo là per rimirare “o cule ‘è chist’ ‘è chille”.
– Muvètevè! ‘cchianati ‘nguopp’à carrozz’ c’avimmi da sunà ‘o Brecht Forùm! Muorte e stremuorte! Stramuorte e muorte!
Già, era giunto il giorno terrifico in cui avremmo incontrato il Cavaliere Nero, prestigiosissimo musicante la cui fama era giunta fino alle coste sicane di Katane: il mitico Elliotto Sciarpe. Egli si presentò spalancando le porte di quell’ampio locale, in completo nero quale regale sinfoniante di quelle zone, tenebroso e altero come un signore della notte, con gran voce baritonale profferendo un sonorosissimo “Hi”. Al che noi tutti ci inchinammo, come etichetta e costumanza richiedon anche in queste terre forestiere, a testimonianza di vassallaggio e remissione dei nostri musical servigi. Cosa che l’austero cavaliere parve gradire in sommo grado.
– Queste sero, presemterete, due combosizionaaa -, annunciò a tutto il drappello con il suo italiano approssimativo e pieno di influenze napoletane il prode Cuppiello, da troppi anni emigrato in Nuova Yorke – la primeee diretta da lo maestre Francisco da Cusano (e nun ci facite fare figure ‘e ‘mmierde, ‘o vere? Mi raccumanne… ah…), nella secomvda, presemteremo una bellissima e stupefacento combosizionaaa del lo Superbissimo et Eccellentissimo Maestre Elliotto Sciarpe, (e puro qua… niente figur’è mierde eh?… ah… va ‘bbuone? ‘O vieereee.. ah…ah…) – subito come a far intendere allo Sciarpe che s’era lì per lavorare e non per pascersi pigramente… insomma che questi italioti eran qui per travaglio e non per diporto.
A tale annuncio molti si fécer paonazzi, con il solito Da Messina caduto in preda alle ambasce e agguantato per tempo alla collottola dall’aitante Quindici, mentre tentava una maldestra via di fuga dalla ritirata.
– Una nuova composizione? – disse sgomenta Anita de Troise – così su due piedi?
– Giammai presterò ai capricci del caso li miei gorgheggi! – obiettò stizzita la Gaia Martinuzzi.
– Ecche quaaa le partituraeeee – fu la chiusura del Cuppielle. La qual frase ricadde con il suono secco della mannaia.
Con molta pazienza dunque e con l’utilizzo del pregiatissimo olio di gomito del Curamazze, ci ritrovammo ad eseguire dapprima l’ “Impromptu 457: Improvvisatori a la pugna!”, con Sciarpe alla ghironda da brazzo, e lo maestro Paganini in tacabanda. E fu tutto un susseguirsi di “ooohhhh”, di “eeehhh”, e di “aaahhh”, tramutatisi in “ooohhhh ooohhhh”, “eeehhh eeehhh”, “aaahhh “aaahhh”, quand’appropinquammo poscia in seconda battuta l’esecuzione de la stravolgente e temutissima composizione dell’Oscuro Maestro Elliotto Sciarpe, dall’esotico titolo di: “Flexagons”
Da quel giorno vi fu tutto un gran tripudiar di consensi, e fummo invitati in tutte le guise: dallo duo di cembali e gorgheggi, a lo quartetto di mandole, nostra vera spezialitàte, grazie a li mottetti composti con dovizia e rigore da lo maestro Sorgive. Per non dir de le cantiche de lo Salernitano duettate con il Da Populla, accolte con giubilo al pari dei mottetti del Cassiopea con tanto di grancascia de lo Quindici.

13 marzo 1841
Lo ultimo giorno fummo colti da gran melanconia. Tali e tante eran state le gioie dopo tutte le tribolazioni, dopo le ingiustizie e le umiliazioni subite a Stivalopoli, con così tanto gaudio et calore eravamo stati accolti in quelle terre, che lo ultimo concerto nelle sale dell’“Issue Room” – che pur vantava la partecipazione di illustri musicanti in qualità di ospiti de la nostra orchestrina dei “Nakeddi Musicianti” -, pareva poca cosa, presi com’eravamo alla gola dall’angoscia per il nostro imminente ritorno a Stivalopoli (ch’adesso, a rimirarla da codeste distanze, parea come lo sparuto gruppo di catapecchie de la contrada di Mulinazzo).
Perfino lo Cuppiello sembrava ora affannarsi meno. S’aggirava nella platea ancora vuota mogio mogio, come un cane bastonato, vieppiù pungolando chi gli capitasse a tiro, ma senza la convinzione de li primi giorni, senza quel mordente, essendo in suo cor affranto anche lui. Ciononostante accogliemmo in pompa magna li signori musicanti che s’eran presentati di lor sponte, in seguito alle voci che ormai s’eran sparse per la città, accorsi giustappunto per verificare e confrontarsi di persona e convenir a singolar tenzone con la nostra orchestrina da diletto. Furono dunque annunciati: al cello madamigella Nicoletta Federichi, al grancascione il baronetto Giacomino il Pugliese, ed al chitarrone il Cavalier Ronnie Andersonne, sempre con lo Mastro Cerimoniere Mauro Paganini ch’oramai era assoldato al nostro battaglione. Così mi ritrovai ad orchestrar una sì mirabilante “macchina da guerra”, ed ancor oggi, a distanza di tutti questo tempo, quando la mia mente vaga, nel delirio dei miei consunti anni, ritorno a grandi falcate a quei momenti di mirabolanti musiche, ed a quelli accordi, ed a quei suoni, ed a quelle facce pulite di giovani valorosi e impavidi.

14 marzo 1841
Lo giorno seguente, come d’accordo, disertammo la partenza, e ci ritrovammo purtuttavia tutti insieme alle prime luci dell’alba, fra li gelidi venti che spazzavano il porto. Da lì, aggrappati ai nostri cenci sbattuti dalla tormenta, salutammo la nostra nave che salpava verso una terra che noi continuavamo ad amare, ma che da queste distanze si rivelava più per lo coacervo de li particolarismi, delle intestine lotte e de li rancori de le casate, che per sue luminescenze. Decidemmo dunque di farla finita con quel medioevo di cospirazioni e invidie, di vender la nostra caravella e con li ricavati d’acquisire una casa atta ad ospitare con dignità e decoro noi tutti. Lì fra quelle luci aliene di un mattino metallico, decidemmo di fondare la nostra colonia: The Involuntary Improviser.
Molti di noi si meticciàron durante il corso degli anni con li nuovayorkesi, e misero su famiglie per generazioni, avendo nella musica la nostra principale fonte di ispirazione e mantenimento.
Chi ora vi parla è un vecchio stanco ma felice, un uomo afflitto da ogni acciacco che saluta con gioia la nascita de l’ultimo de li nipotini della nostra comunità: il piccolo Nicola, detto Nick, Nick La Rocca. “E speriamo che anche lui possa seguire le nostre orme e diventare uno grande et stimatissimo musicante”. Queste furono le ultime parole dette tra noi in un bel pomeriggio di primavera, mentre inforcavamo il cappello tra la settima e l’ottava.

Francisco Da Cusano
Nuova Yorke
11 aprile 1889

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