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Come essere felici senza essere uguali: riflessioni attuali sul romanzo “Fahrenheit 451”

Mutando di poco l’adattamento per la sceneggiatura, ma mantenendo l’aderenza al concetto che Ray Bradbury aveva espresso in modo più conciso e letterariamente efficace nel romanzo Fahrenheit 451 (1953), François Truffaut nel film dal titolo omonimo (1966) metteva in bocca al solerte capitano della squadra dei ‘pompieri’ le seguenti battute: «Tutta questa filosofia…; è anche peggio dei romanzi. Pensatori, filosofi, dicono tutti una stessa cosa: soltanto io ho ragione! Gli altri sono tutti imbecilli! In un secolo ti dicono che il destino dell’uomo è prestabilito; il secolo dopo, invece, ti dicono che ha libertà di scelta. È soltanto una questione di moda, la filosofia; è come le gonne corte quest’anno, le gonne lunghe l’anno prossimo. […] E Nietzsche, Ah! Nietzsche… questo non piaceva agli ebrei? […] Ah, questo qui deve essere molto profondo: l’Etica di Aristotele! Naturalmente chiunque lo legga deve credere di essere superiore a chi non lo ha letto. E questo non è bene! Noi dobbiamo essere tutti uguali, Montag. L’unico modo di sentirci felici è di essere tutti uguali!»

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La questione non è da poco. Di certo non si tratta di mode né a proposito dell’uguaglianza, né per quanto riguarda la filosofia. Per non parlare della felicità da dividere in parti uguali, affinché essa possa darsi come forma egualitaria, con il fine di evitare l’infelicità e le invidie altrui, addolcendo nella finzione offerta dallo scrittore statunitense la forma totalitaria disegnata nel romanzo con parvenze di accettabilità.
Verrebbe da dire: visionari utopisti e provocatori, Bradbury e Truffaut. Se non fosse tutto vero.
Si provi a immaginare un acquario dalle acque cerulee, dai riflessi accattivanti e dai colori vividi. Esso è la rappresentazione dell’immagine dell’uguaglianza felice nella società populista/dittatoriale di Bradbury. Tutti diversi e bellissimi. Ma tutti uguali nella reclusione. Si tratta di quella stessa omologazione nella forma della reclusione mentale che Bradbury affidava a una ipotetica società del futuro, ridotta ormai a ricorrere all’oralità clandestina, pur di salvaguardare un barlume di cultura e di tradizione libraria.

Si diveniva liberi attraverso l’identificazione con un libro che si mandava a memoria, e parlare con gli altri significava narrare ciò che di quelle pagine immateriali rimaneva nella mente. Gli uomini erano di fatto libri su due gambe e la propria personalità e il proprio nome divenivano di volta in volta autore e titolo di una grande opera. La felicità era elementare: consisteva nel possesso interiore di un capolavoro e nel poterlo scambiare con un altro. Era inutile tentare di perseguire altro genere di felicità.
Sembra che il diritto a “perseguire la felicità” richiamato dalla Costituzione americana – che talvolta viene reclamato in strada a gran voce – possa essere rinvenuto nella corrispondenza di Gaetano Filangieri con Benjamin Franklin, poi transitato nel testo rifinito da Thomas Jefferson. Anche qui, Napoli capitale del mondo, come per la pizza.
L’artificio del discorso sta nel fatto che la felicità va inseguita con tenacia, come nella ricerca dell’oro o del successo e che il concetto e la cultura di Filangieri sono molto lontani dal
sentiment dei padri fondatori americani. Ma è un fatto che in quella enunciazione non bisogna scambiare il diritto a “essere” felici con il diritto a “perseguire” la felicità.

Coniugare felicità a uguaglianza, libertà etc. è difficile, forse socialmente pericoloso, soprattutto quando per inseguire la prima si può arrivare non a perseguire, bensì a perseguitare le seconde. Come accade nei dilemmi etici, ridurre o addirittura sottrarre una fetta di felicità ad alcuni, significa metterla nel piatto di qualcun altro. Il gioco non è mai a somma zero. Qualcuno risulterà sempre perdente, perché l’uguaglianza parte dall’asimmetria, dalla disparità, dalle differenze con la scommessa di ripianarle. Essa, contrariamente a quanto si crede, non è un concetto statico ma dinamico. È una sorta di risultante che proviene da equilibri assai complessi, dove a sfidarsi sono molteplici variabili, prima tra tutte quella di porsi il problema del perché possa essere utile e giusto praticarla. Si potrebbe essere felici senza essere uguali, forse? Più difficile che accada il contrario? Proprio perché l’uguaglianza costringe a guardare gli altri, la felicità no. L’uguaglianza è plurale, la felicità è prima di ogni cosa stato d’animo soggettivo. L’uguaglianza è relazione che per necessità va esternata; la felicità si dà come vissuto personale immenso e profondo, eventualmente da comunicare.

Nella omologazione (soprattutto indotta o repressiva) si annida il difetto dell’imposizione dall’alto dell’uguaglianza, che invece rimane sempre una mèta da conseguire; perché l’uguaglianza è un principio vero, ma dall’applicazione assai verosimile. Non volerla, significa negare un principio fondamentale; volerla a tutti i costi vuol dire imporla facendo pagare pegno attraverso la moneta della felicità a moltissimi uomini. Lo stesso prezzo paga chi vuole essere felice a tutti i costi, inseguendo il dettato del perseguire la felicità alla lettera. Come si vede, in questa situazione il pendolo della storia umana può oscillare all’infinito. Seneca, che su queste cose sembra essere stato avveduto, scriveva: “Non considerarti felice che il giorno in cui tutte le tue gioie nasceranno in te; quando alla vista di quegli oggetti che gli uomini cercano ad ogni costo di conseguire e di tenere bramosamente per sé, non troverai niente che ti sembri, non dico preferibile, ma nemmeno desiderabile. Eccoti una formula sintetica per misurare i tuoi progressi e per darti una coscienza della perfezione raggiunta: possiederai il tuo vero bene il giorno in cui capirai che gli uomini cosiddetti felici, sono i più infelici». Se le cose stanno così, è conveniente misurarsi di continuo. Non con gli altri, ma con sé stessi.

 

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