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HomeCommemorazioniIl mio omaggio al grande amico, pianista, mentore Gianni Lenoci

Il mio omaggio al grande amico, pianista, mentore Gianni Lenoci

“Una perdita immensa. Una voragine che si apre nel mondo della cultura, dell’arte, dello spirito del mondo. Se ne va un fratello. Un Maestro. Ma Gianni Lenoci ha ali grandi. Molto grandi. Grazie per tutto. Grazie infinite”

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La scomparsa di Gianni Lenoci lascia una voragine che non è colmabile e non lo sarà neanche per il futuro. Una voragine che non è solo affettiva (e questo è già di per sé un mondo fatto di immensità, di leggi e di codici altrettanto illimitati), ma culturale, artistica, spirituale. A lui piacerebbe molto ciò che sto per scrivere: questo paese non è pronto per “contenere” lo spessore e il titanismo di Gianni Lenoci. No. Non lo è. Perché tali figure gigantesche, enormi non possono essere liofilizzate, edulcorate, né tantomeno possono essere costrette, rimpicciolite e metabolizzate entro un contesto mediocre e disagiato quale quello che offre il panorama nostrano. Ma non è questo il tempo per rendere giustizia della tua grandezza: ci torneremo presto, lo prometto. Intendiamoci: Gianni Lenoci apparteneva e appartiene alla nobile schiera dei grandi Sterminatori dell’Ovvio: le più belle discussioni me le sono fatte con lui (e pochi altri). Era capace di far collassare un universo con un certo tipo di sguardo, sapeva essere poetico nell’invettiva, e palesarsi all’improvviso quale demiurgo del gesto. Inoltre era dotato di grazia: sembrava un coreografo stanco di danzare e annoiato delle ovvietà dei gesti altrui; ma al contempo era capace del guizzo fulminante che dava vita a una nuova palingenesi del mondo. Sì, proprio del mondo. Perché Gianni è immenso, sapete? Il suo corpo è dislocato su vari livelli del Divenire e abbraccia molti cieli. Anche di questo parlavamo. Di lui, e del suo essere Demiurgo. E lui celiava, provava a trovare appigli nel razionale, dalle parti della sua immanenza terrena; e dunque ci provava a “riportare tutto a terra”… ma poi capitolava quando gli facevo capire che avevo un Titano per fratello: “sei come Oceano, Iperione, Crono!”, e lui rispondeva col suo devastante “aaaaaaaaaaa!”, e subito dopo con un “Love Kusa”.
Aveva coniato questo urlo onomatopeico e alcuni slogan che finivano per caratterizzarlo ancora per un altro aspetto della sua poliedrica natura: era un comico e un inventore di onomatopee di gran livello.
C’eravamo sentiti fino a due giorni fa. Questo è assurdo, inconcepibile, disumano. Ma è un fatto. Un apparente fatto. Perché so per certo che stai già qui da qualche parte, in una delle tue forme eteriche. Qui ed ora.

Gianni Lenoci è stato un grande Maestro. Si scrive “Maestro” con la “M” maiuscola nel suo caso perché in Gianni la natura aveva determinato tutte le caratteristiche del vate, del faro, del retore. Era Maestro perché non concedeva che il necessario: centellinava, sferzava, e predicava. Era un uomo saggio, di quella saggezza cruda e crudele, figlia del Sacro e del Sublime, che mostra il lato scarnificato delle cose a chi vuole essere iniziato. Gianni Lenoci non poteva essere per tutti – essendo il “Tutto” degli umani finito numericamente – perché portatore di valori sovrumani, eterni. Questo lo si poteva constatare facilmente frequentandolo. Sì, mi riferisco proprio quel sentore di costante spiazzamento, a volte quasi di disagio in sua presenza, che tutti noi abbiamo provato; bene, quello era il segno della presenza di Hermes, di ciò che è antropomorfo e contemporaneamente pura essenza di spirito: eccola la bellezza estrema di Gianni Lenoci. Per noi due era sempre una festa. Eravamo quasi una monade. Il ricordo più tenero di Gianni è quello relativo a un viaggio in macchina da Catania a Monopoli. Lui si addormentava spesso. Poi quando si risvegliava gli chiedevo fatti e particolari della sua infanzia. Che faceva. Dove andava a Monopoli da giovane.Che luoghi frequentava. Come trascorreva le vacanze estive. E lui, che di solito era molto restio a raccontare fatti privati e del suo passato, con me si apriva. Mi portò a vedere i luoghi di Monopoli che frequentava da adolescente, mi parlava dei bar, dei suoi genitori, della case in campagna. Per me fu un grande regalo. Un segno di grande affetto.
In questi giorni di ospedale, nei nostri dialoghi, nessuno pensava al peggio. Tuttavia ci sono stati dei momenti in cui io e Gianni… forse abbiamo capito. Lui sapeva che ero contrario a questa cosa che stava facendo. Ma non voglio dire oltre.

Caro Gianni, mio Maestro e fratello di karma, nella poesia che ti dedicai a suo tempo, e che insieme abbiamo presentato in varie occasioni, ti parlavo della tua essenza divina e dunque immortale. Ho solo apparentemente sbagliato nel pensarti pensionato… è così in qualche altro universo… in questo ti sei semplicemente rotto i coglioni e ci hai lasciati nel vuoto siderale della tua assenza per farci evolvere attraverso la maieutica del dolore e della sua relativa catarsi. C’è qualcosa di ellenico in questa tua dipartita: il silenzio che riempie gli spazi tra un esametro e l’altro dell’Iliade, la potenza lirica della tua totalità artistica… e tanto altro che non riesco nemmeno a concepire. Non ho volutamente parlato del tuo magistero musicale, perché troppo prossime le nostre vicende sonore, troppo vivide e pulsanti le nostre nudità sul palco. Occorrerà tempo. Tempo per raccogliere quanto seminato. Tempo per metabolizzare. Per quel poco che conta, cercherò di mantenere sempre viva la fiamma della tua poetica, diffondendo come posso la tua arte.

Questa la mia poesia che ti dedicai qualche anno fa, in tempi non “sospetti”

Tuo “Love Kusa”

GIANNI LENOCI

Passeggiava sui resti
di un’umanità estinta
fra le braci di un pianeta morente.

La volta celeste
era violaceo chiarore
in cielo nessuna stella.

Il confine tra poesia e realtà,
una sottile membrana
di pensiero giallo tisico.

Fermare il flusso
del brulicare insettifero
resettare la palingenesi.

Essere sovrano della contemplazione
monarca della desolazione,
vivida e pura essenza antropomorfa.

Tangibile nell’assolutezza dell’Uno,
della non riproducibilità
costrutto dell’indeterminato cogitare.

Fece fiamme del Bene,
estirpó il Divenire alla radice,
fu pantocratore del proprio quotidiano.

Spietato come la caduta di un petalo,
si fece pensionato
e visse molti anni da nonno.

Nella fila alla posta
lo squarcio della visione:
essenze di eliche congruenti del DNA.

PS
“Si avvicina il tempo in cui l’uomo non genererà più stelle”, “Cosi parlo Zaratustra” di Friedrich Nietzsche. Una di queste ultime stelle è quella Gianni Lenoci. Non è retorica. Per me è un fatto. Come una prassi è quella della maieutica di Nietzsche, tutta ancora in divenire e da palesarsi. La lezione di vita di Gianni era molto “nietzschiana”, perché in ogni sua manifestazione egli ha sempre accarezzato la cresta del Sacro. Sempre. Perfino nei momenti più scurrili e giocosi. Gli avevo fatto conoscere Marco Guzzi, uno dei più lucidi pensatori della nostra contemporaneità. Gli dicevo “Uncle, cazzo siete identici! Mi sembra di sentire parlare te! Stessa voce. Stesso piglio. Stessa risata! Molta somiglianza somatica!”. E Uncle Gianni confermava. Si entusiasmava. Diceva: “aaaaaaa… si sì… è vero! In questo punto. Anche qua anche qua… aaaahhh!”. Nietzsche, Marco Guzzi e Gianni Lenoci sono esploratori: aprono vie nella foresta della mediocrità. Gianni, come loro, predicava spesso nel deserto. In questo deserto nascevano oasi, quelle della sua semantica. Sentite qui Marco Guzzi in questa splendida conferenza che insieme a Uncle Gianni avevamo sviscerato. Sentirete parlare lui. Sentirete la sua risata. La sua veemenza. La forza della sua volontà di potenza. Lo sentirete vivere come non mai.

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